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L'esercito italiano in Russia
Attualità

Il tragico destino dell’Armir impegnato nella campagna di Russia

Quando nel 1941 le armate del III Reich invasero l’Unione Sovietica, Mussolini alleato di Hitler non volle restare a guardare e inviò sul fronte russo un corpo di spedizione di 60 mila uomini a cui si aggiunsero, un anno dopo, altri 220 mila soldati

Il dramma di oltre 200 mila soldati italiani

Quando nel 1941 le armate del III Reich invasero l’Unione Sovietica, Mussolini alleato di Hitler non volle restare a guardare e inviò sul fronte russo un corpo di spedizione di 60 mila uomini a cui si aggiunsero, un anno dopo, altri 220 mila soldati.
Su quanto accadde ai militari italiani dell’Armir abbiamo una ricca e preziosa memorialistica.
I celebri libri di Nuto Revelli (“La strada del Davai”), di Mario Rigoni Stern (“Il sergente nella neve”) e di Giulio Bedeschi (“Centomila gavette di ghiaccio” e “Nikolajewka c’ero anch’io”) raccontano quella sfortunata impresa.

Soldati con mezzi  insufficienti

I nostri soldati avevano mezzi insufficienti e risorse inadeguate all’enorme sforzo bellico, scarsissimi erano gli equipaggiamenti, le munizioni, i viveri.
La disfatta culminò in una drammatica ritirata durante la quale, tra morti e dispersi, il bilancio fu di oltre 90 mila soldati, maciullati dai cingoli dei carri armati T34 russi e dal violento fuoco di sbarramento della fanteria russa.

La tragedia della divisione “Cuneense”

Dal 20 gennaio del 1943 e nei giorni seguenti, a Nowo Postojaloska si consumò la tragedia della Divisione “Cuneense”, facente parte dell’Armir, e dei circa quindicimila Alpini partiti per la Russia, che si trovarono a combattere con temperature intorno ai 40° gradi sotto zero, ne ritornarono soltanto 1.500.
Della “Cuneense” facevano parte soldati di Langa, Roero e Monferrato, i caduti e i dispersi della provincia di Asti furono 422, di Cuneo 3.904 e di Alessandria 549.

Un destino crudele

Quando si scopre il destino dei prigionieri italiani?
La ricercatrice Maria Teresa Giusti, docente di storia all’università di Chieti, nel libro “I prigionieri italiani in Russia”(edito dal Mulino) scrive che nei documenti inviati dal Governo russo a quello italiano, a partire dal 1992, vi figurano 64.500 nominativi di cui 38 mila si riferiscono a prigionieri morti nei lager, 22mila a rimpatriati mentre per altri nomi, circa 2mila, non viene precisata la sorte.
Non figurano i morti nelle marce e sui treni, che dovrebbero ammontare a 22mila soldati.

Soldati rimasti  oltre Cortina?

Della sorte dei prigionieri italiani in Russia non sappiamo il nome.
Da qui, è nata una leggenda, alimentata a lungo dai racconti dei pochi rientrati in Italia: sono davvero rimasti oltre Cortina i nostri soldati, di cui molti Alpini?
Scrive la prof. Giusti: “Per un cittadino straniero, soprattutto se soldato di un esercito aggressore, era difficile rimanere a vivere nell’Urss, in un regime poliziesco e delatorio.
Un cittadino sovietico, ragazzo ai tempi della guerra, racconta la storia di un Alpino che durante la ritirata del gennaio 1943 si era fermato nel suo villaggio.
Scoperto dal Soviet e ricercato dalla polizia, per evitare grane, gli abitanti del villaggio pensarono di uccidere l’Alpino”.

Il mito di Nikolajewka

Come nasce il mito di Nikolajewka?
Il 26 gennaio 1943, i soldati italiani reagirono alle truppe russe con sacrificio e valore e, soprattutto, gli Alpini rimasero compatti ad affrontare un momento durissimo con spirito di solidarietà e lealtà.
A Nikolajewka si consumò una tragica sconfitta che ebbe una sorta di funzione catartica, esaltando i nostri soldati.
Il bilancio della guerra in Urss fu spaventoso e l’Italia pagò un prezzo altissimo per la sua decisione di immischiarsi in quello che, ancor oggi, rimane il più grande scontro militare della storia. Lo pagarono, soprattutto, i reduci che in Italia furono trattati alla stregua di reietti.

Guido Gabbio

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