«Io sono nessuno». E per tutto il docufilm non si saprà qual’è il nome di quel ragazzo africano, probabilmente nigeriano, che nella semplicità del suo italiano imparato a tempo di record, spiega come sia facile diventare uno straniero irregolare pur con tutta la buona volontà di rispettare le regole.
La sua storia è raccolta in “Inshallah”, il docufilm prodotto dall’associazione Sotto il Baobab di Canelli per il progetto scelto da UNHCR e INTERSOS nell’ambito del programma PartecipAzione per rafforzare l’inclusione dei rifugiati nella vita sociale.
Un videomaker professionista ha girato le scene seguendo le giornate dei braccianti di colore nelle vigne dell’Unesco. Quelle stesse vigne che sono state ricordate solo qualche giorno fa nel rapporto Ecomafie di Legambiente per l’operazione contro il caporalato portata a segno l’anno scorso dalle forze dell’ordine astigiane.
Inshallah non racconta il caporalato bensì il paradosso di una legge, quella italiana sull’immigrazione, che assomiglia ad un gatto che si morde la coda.
Il nostro protagonista “senza nome” dorme su quella che una volta era la panchina di attesa dei treni che passavano dalla ex stazione di Canelli, a ridosso dei binari in disuso.
Lui in Italia ci è arrivato regolarmente e un permesso di soggiorno l’ha avuto. Solo che è scaduto e non è riuscito a rinnovarlo. Perchè?
Lo spiega direttamente lui.
«Quando sono andato in Questura per chiedere il rinnovo mi hanno chiesto il contratto di lavoro e il certificato di residenza o di ospitalità. Ho chiesto al mio datore di lavoro di fare un contratto, ma lui mi ha detto che per firmarlo devo avere un permesso di soggiorno valido. Sono andato a cercare casa in affitto e il padrone mi ha detto che per darmi l’alloggio vuole il permesso di soggiorno e il contratto di lavoro. E sono al punto da capo».
Un corto circuito che in pochi mesi lo ha trasformato in un irregolare che vive per strada e lavora con uno dei cosiddetti “contratti grigi”.
«Per 15 giorni al mese ho un contratto “in bianco” mentre per gli altri 15 lavoro e vengo pagato in nero. Una condizione – prosegue il protagonista del docufilm – che mi ha tolto l’umanità, che mi fa sentire un cane abbandonato che dorme per strada. Ma, un giorno, avrò di nuovo un nome».