Un quaderno piccolo, con la copertina un po’ triste che riproduce un malinconico feuillage autunnale che spunta dal fondo della libreria.
Non può essere! Quel quaderno l’avevo perso in terza elementare e adesso di anni ne ho 53.
Lo prendo, lo sfoglio e mi salgono le lacrime agli occhi.
Dopo così tanti anni le sue pagine svelano il mistero della sua scomparsa e aprono i ricordi su un uomo che sembra uscito dritto dritto da un film di Ermanno Olmi.
Le pagine sono tutte occupate da una sola scritta, ripetuta ossessivamente senza lasciare margini o interlinee: Corciarino Francesco.
E’ la firma di un uomo d’altri tempi, l’ultimo servo delle vigne di quel Nord Astigiano ai confini con il Torinese che non è mai stato tenero con i suoi contadini. E che se oggi è un piccolo gioiello di biodiversità e panorami mozzafiato lo deve ai sacrifici dei contadini del secolo scorso che su quelle colline hanno lavorato come animali.
Francesco Corciarino, classe 1907, nasce in una piccola cascina a Cerreto d’Asti da una famiglia di contadini.
Quando ha appena 5 anni, la madre muore nel dare alla luce una sorellina che sopravviverà al parto difficile.
E difficile si fa la vita già grama dell’intera famiglia, senza la figura materna.
Francesco è un ragazzino robusto, inizia presto ad aiutare il padre e il fratello in campagna. Diventa così bravo che a 10 anni lascia la casa e va “da garzone” in una cascina vicina. Comincia così quella che sarà una vita al limite della sopportazione della fatica.
Fino a 70 anni, passando di cascina in cascina, lavorerà ettari di vigneti di Freisa e Barbera d’Asti, a mani nude, con il solo aiuto della zappa, della vanga, di un falcetto e di un paio di cesoie da potatura.
Non ha mai preso la patente quindi non ha mai utilizzato un trattore o qualunque altro mezzo che gli facilitasse il lavoro. Da giovane l’unico mezzo di trasporto che aveva era una vecchia moto ma con il passare degli anni e con una ferita grave che non si rimarginava ad una gamba, anche quella concessione alla tecnologia è venuta meno.
La sua vita passata a vangare i filari, piegato sulla terra, la raccontava la sua postura: dopo i 60 anni la sua schiena ha preso una “curva” a 180 gradi che non si è mai più raddrizzata. Invecchiando è peggiorata e Francesco ha passato gli ultimi vent’anni della sua vita dovendo alzare la testa per vedere in faccia le persone e il mondo che lo circondava.
E se il tempo passato in vigna era fatto di fatica, sudore e calli sulle mani, quello (poco) di riposo non era meno gramo.
Francesco era il “garzone” e non aveva diritto a vivere nelle case dei padroni. Il suo posto era in un angolo del fienile, dietro la stalla o, quando andava bene, in un pezzo di garage arredato alla bell’è meglio come una camera da letto.
Tutto ciò che possedeva entrava in una valigia, e neppure tanto grande.
Aveva fatto la seconda guerra mondiale e probabilmente aveva incontrato dei soldati americani perché, quando aveva paura di qualcosa, gridava un “Sarababic” che ricorda il termine “beach”, spiaggia, in lingua inglese.
Di questo non aveva mai parlato con nessuno e mai a nessuno aveva svelato il significato di quell’espressione tanto bizzarra. Ma in effetti lui parlava poco e di pochissime cose. E questo non significa che stesse zitto.
Lui, in realtà, parlava con se stesso. Sì, parlava da solo, sottovoce, in continuazione.
Era la sua autoterapia contro la solitudine che gli aveva consentito di reggere alla fatica e all’emarginazione di una vita.
Quando, anziano e malato, era stato accolto a casa di una nipote, non aveva mai visto un bagno, né una lavatrice elettrica, né un televisore.
Quest’ultimo, per lui, era il diavolo in persona e quando, in tinello, era acceso, lui si sedeva al contrario, mostrando la schiena alla tv «perché mi fanno paura tutte quelle persone piccole lì dentro».
Il bagno e la lavatrice ha continuato ad ignorarli fino alla morte.
Nonostante le profferte della nipote, ha continuato, fino a quando la salute glielo ha permesso, a lavarsi all’aperto, nascosto da una tenda, facendosi scaldare l’acqua in un grande pentolone sopra qualche mattone. Stesso pentolone usato per scaldare l’acqua usata per lavarsi i vestiti a mano.
Negli anni aveva anche imparato a cucire e a rammendarsi i vestiti da solo, come poteva.
Aveva un solo segreto, ed era custodito nelle pagine di quel quadernetto sottratto alla pronipote mentre faceva i suoi compiti.
Quella firma, ripetuta ossessivamente, era la cifra della sua dignità.
Francesco non aveva potuto andare a scuola, ma aveva imparato a memoria la sua firma perché non voleva firmare con la “x” i documenti che lo riguardavano e, in seguito, il ritiro della pensione all’ufficio postale di Cerreto.
Ma aveva anche paura di dimenticarsi come si faceva la sua firma. Così tutti i giorni, per anni, l’ha ricopitata.
Per lui quelle lettere significavano poco dal punto di vista sintattico ed ortografico.
Erano più “disegni” che parole, ma sapeva che quello era il suo nome e tanto era l’orgoglio quando poteva apporre quella firma chiara e leggibile sulla ricevuta della pensione davanti all’impiegato delle Poste.
Un allenamento della mano e del cuore commovente di un uomo cui neppure una vita da servo delle vigne ha potuto togliere la dignità.
Ambiente
- Riccardo Santagati