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La lavorazione della canapa
Attualità

La coltivazione della canapa dal Cinquecento ad oggi nell’Astigiano

Fra fine Cinquecento e metà Novecento in Piemonte la canapicoltura rappresentò un’attività di una certa rilevanza, interessando, seppur in misura differente, ampie aree a diverse altitudini: dalla pianura alla montagna

Ecco come si coltivava la canapa

Fra fine Cinquecento e metà Novecento in Piemonte la canapicoltura rappresentò un’attività di una certa rilevanza, interessando, seppur in misura differente, ampie aree a diverse altitudini: dalla pianura alla montagna.
La canapa (Cannabis Sativa), pianta annua della famiglia delle Cannabinacce, di origine asiatica, veniva coltivata fin dal Trecento prevalentemente per il fabbisogno familiare; norme relative alla macerazione e tessitura sono contenute negli statuti quattrocenteschi di Villanova, mentre i catasti cinque-seicenteschi di Villafranca e Villanova attestano la presenza di campi di canapa.

Nel XVII secolo la canapa assunse importanza notevole a livello commerciale. A incrementare i consumi del prodotto furono anche le forniture militari di corde e telerie, specie per le navi a vela.

I campi lungo il Tanaro

La canapa interessava in modo particolare la pianura alluvionale fra Torino e Cuneo, ma anche la piana villanovese, i campi lungo il Tanaro e le colline monferrine; entrò, come coltura da rinnovo, in rotazione continua con il frumento, in tal modo gli agricoltori evitavano di dover lasciare il terreno periodicamente a riposo. A favorire la coltivazione era anche la presenza di risorse idriche, indispensabili per la macerazione, finalizzata a separare la parte fibrosa del fusto (tiglio) da quella legnosa (canapulo).

La produzione  nel Regno Sabaudo

La produzione di canapa nel Regno sabaudo veniva stimata, nel 1717, in circa 87 mila quintali, scendendo a 37 mila a metà secolo, per superare i 92 mila quintali a fine Settecento (dato comprensivo delle nuove province di Novara, Valsesia e Lomellina), con una resa media di 6 quintali per ettaro. Nel corso dell’Ottocento l’estensione della superficie coltivata e il miglioramento delle tecniche colturali (con rese di quasi 9 quintali per ettaro) portarono a un fortissimo incremento della produzione che raggiunse il culmine nel 1880, con un valore valutato (probabilmente con troppo ottimismo) in oltre 500 mila quintali.

La riduzione della superficie coltivata

Negli ultimi due decenni dell’Ottocento si manifestò in Piemonte una progressiva riduzione della superficie coltivata, dovuta da un lato alla presenza di un parassita infestante, dall’altro dalla diffusione di prodotti succedanei (cotone, iuta) e della concorrenza con fibre provenienti da altre regioni e dall’estero. La produzione attorno al 1920 si aggirava in Piemonte in 70 mila quintali. Tornata in auge durante gli anni dell’autarchia e dopo una breve ripresa all’inizio degli anni Cinquanta, la canapicoltura piemontese scomparve definitivamente dalla scena, non potendo più fronteggiare la concorrenza di altre fibre naturali e sintetiche.

Semina e raccolta

La canapa veniva seminata tra marzo e aprile e raccolta in agosto, subito dopo la fioritura. Per migliorare la qualità delle fibre, la semina doveva essere fitta, la concimazione con prodotti a rilascio immediato abbondante; anche la selezione della semente, le caratteristiche del terreno e il clima erano basilari.

Per la raccolta, il fusto poteva essere estirpato o tagliato con il falcetto: gli steli venivano raccolti in mannelli e lasciati essiccare sul campo per qualche giorno e successivamente in cascina. Quindi si provvedeva a tagliare le radici con la scura e si battevano le punte per far cadere le foglie.

Formati dei fasci più grossi, venivano caricati sul carro per il trasporto nei maceratoi. La immersione in acqua permetteva la separazione del tiglio dal canapulo.

Tecniche di macerazione

Due le tecniche tradizionali di macerazione in uso in Piemonte. Nel Novarese e nel Saluzzese il processo avveniva nelle acque fredde dei corsi d’acqua. Invece nel Monferrato si utilizzavano prevalentemente le acque stagnanti, pozze naturali o vasche di raccolta dell’acqua piovana: in questo modo si ottenevano, grazie alla temperatura dell’acqua che poteva raggiungere i 15°C, ridotti tempi di separazione del tiglio e una buona bianchezza del filato (permettendo la produzione di tele di maggior finezza); dove presenti si ricorreva ad acque sulfuree che conferivano qualità superiore al filato. I fasci erano posati sul fondo melmoso a strati incrociati, sopra in quali venivano collocati grossi massi per tenerli sotto il livello dell’acqua. Dopo un periodo variante da otto a quindici giorni i fasci venivano estratti e sbattuti nell’acqua corrente per eliminare i residui putridi della macerazione. Quindi i fasci erano posti ritti a sgocciolare e asciugare al sole, prima di essere ricaricati sul carro per il ritorno in cascina.

Procedimenti alternativi

Al fine di risolvere i problemi igienici derivanti dalla presenza di estese superfici di acque stagnanti, vennero studiati procedimenti alternativi, meccanici o chimici. Furono sperimentate, a partire da inizio Ottocento, macchine a cilindri di origine francese, che diedero risultati deludenti, specie quando il fusto aveva una certa grossezza. Se la fibra così ottenuta risultava adatta per la fabbricazione di cordami, non lo era per la produzione del filato tessile, in quanto non consentiva la pettinatura.

Furono anche studiati procedimenti chimici, alternativi alla macerazione anaerobica tradizionale. I bagni in sostanze quali l’acido solforico, l’acido muriatico ossigenato o il comune sapone, permettevano di ottenere una canapa che aveva una somiglianza col cotone e poteva essere venduta come un suo surrogato.

Tornando ai procedimenti tradizionali, in cascina, terminata l’essiccazione, la canapa era pronta per essere liberata dello stelo. La scavezzatura poteva essere manuale oppure facendo scorrere i mannelli su un cavalletto o una panca e battendoli con un bastone o un attrezzo in legno, a foggia di martello o di grosso coltello; le canapule che si staccavano venivano conservate e usate d’inverno per accendere il fuoco o, immergendo la punta nello zolfo, per ottenere rozzi fiammiferi. Quindi si provvedeva alla gramolatura, al fine di eliminare i pezzi di canapule ancora presenti. I mannelli venivano passati nella gramola, formata da un tronco cavo (o due assicelle parallele), fissato su un cavalletto, con un lungo coltello a leva imperniato a un’estremità. Dopo questa operazione per eliminare gli ultimi frammenti dello stelo, la canapa doveva ancora essere pazientemente battuta con la scotola, un grosso coltello in legno.

La pettinatura

Infine veniva inserita nei sacchi in attesa della pettinatura. Questa fase era in genere svolta da lavoratori stagionali (molti scendevano dalle montagne), che tra ottobre e dicembre si spostavano di cascina in cascina con i loro robusti pettini in ferro, di diverse gradazioni.
Con abili movimenti facevano passare e ripassare la canapa attraverso i lunghi denti dei pettini, rendendola finissima e della maggior lunghezza possibile. Il prodotto veniva suddiviso, a seconda della finezza e lunghezza delle fibre, in reste di prima e seconda scelta e in cascame. Le donne della famiglia provvedevano poi alla filatura, sia con il fuso che con il filatoio, entrambi alimentati con la rocca.

La tessitura

La tessitura, consistente nell’intreccio di una serie di fili paralleli (ordito) con un filo continuo (trama) era eseguita dalle non numerose famiglie che possedevano il telaio (e che lavoravano solitamente anche per altri) oppure in laboratori artigiani.
La distribuzione avveniva sul mercato locale o, attraverso i mercanti, in altre aree, anche lontane come Genova e Venezia. A fine Settecento nel Regno di Sardegna erano presenti oltre 10 mila telai. Per tutto il secolo successivo, pur sorgendo alcune manifatture in parte meccanizzate, l’attività continuò ad essere prevalentemente domestica e artigianale, con un elevato impiego di manodopera femminile.

I filati, a seconda dello spessore erano utilizzati per la produzione di tele grossolane e fini con cui si confezionava un’ampia gamma di manufatti: sacchi per cereali in granella o farina, biancheria (da cucina, da tavola, da letto, personale), coperte, ecc. Altro importante prodotto derivato dalla canapa era rappresentato dal cordame: dal refe per le reti dei pescatori alle corde per stendere i bucato a 8 fili, fino alle grosse funi a 32 fili per il traino o legare i carichi sui carri.

Oggi un rinnovato interesse

Da alcuni anni la canapa, grazie anche agli stimoli dell’Assocanapa (istituita a Carmagnola nel 1998 e che conta oltre 700 soci), sta destando un rinnovato interesse, specie nell’ambito della bioedilizia, per la produzione di pannelli termoisolanti e termo-intonaci, del tutto ecologi. Un altro possibile impiego è la pasta di cellulosa di canapa per la produzione di carta di pregio.
E nell’attesa di nuovi sviluppi – grazie a tecnologie innovative – della filiera, dalla coltivazione al prodotto finito, il ciclo della canapa viene efficacemente e suggestivamente rievocato ogni anno, dal 1993, al Festival delle Sagre dalla Pro loco di Callianetto.

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