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Il rito funebre d'un tempo ad Albugnano.
Attualità

I riti funerari nel territorio astigiano nella civiltà contadina

Nella civiltà contadina astigiana il culto dei morti ha radici profonde, caratterizzato da riti suggestivi, credenze popolari e superstizioni, atteggiamenti che pur differenziandosi da una località all’altra, hanno in comune molti elementi

Rituali funerari nel territorio astigiano

Nella civiltà contadina astigiana il culto dei morti ha radici profonde, caratterizzato da riti suggestivi, credenze popolari e superstizioni, atteggiamenti che pur differenziandosi da una località all’altra, hanno in comune molti elementi. Un insieme di eventi che si susseguono dall’agonia alla sepoltura, all’elaborazione del lutto, che interessa in primis l’ambito familiare, ma al tempo stesso coinvolge l’intera comunità.

Segni premonitori

Nella cultura popolare numerosi elementi sono ritenuti preannunciatori della morte. Sono superstizioni che nascono da credenze tradizionali di cui non si conosce quasi mai l’origine e lo sviluppo, né, in molti casi, è possibile fornire una spiegazione logica.Alcuni animali sono annunciatori o procuratori di morte per l’uomo. Il canto della civetta indica che qualche persona nel vicinato sta morendo. L’origine di questa diffusissima credenza può spiegarsi col fatto che quando in casa una persona era gravemente malata e doveva essere vegliata, veniva tenuta accesa la luce (o il lume) e questo chiarore attirava l’animale. Anche attorno al cuculo sono nate molte superstizioni, forse originate dal fatto che l’animale si nasconde nel bosco facendosi notare solo per il suo tipico verso ripetitivo. Altri animali annunciatori di prossima morte sono il pianto acuto del cane che abbaia alla luna lamentosamente, il canto da gallo di una gallina “mascolizzata”. Anche il gufo, il corvo e il pipistrello sono considerati fin dall’antichità portatori di disgrazia e di morte.

Non seppellire i defunti di venerdì

Ampiamente diffuse nella cultura contadina sono alcune credenze legate al rischio che in famiglia dopo un decesso se ne verifichi in breve tempo uno successivo. Questo può accadere se un morto viene seppellito di venerdì (probabilmente perché è il giorno in cui è morto Gesù): ancora nel terzo Millennio sono attestati casi di parenti che per motivi scaramantici rifiutano la sepoltura in tale giorno. A San Damiano d’Asti, il venerdì non si svolgevano le sepolture perché se la croce entrava in chiesa quel giorno vi sarebbe entrata tre volte nell’anno. È presagio di prossimo morto in famiglia anche se uno muore con la bocca aperta o con gli occhi spalancati.

L’agonia

Le fasi del trapasso sono segnate, fin dall’antichità, da momenti rituali, che, pur con molteplici varianti formali e interpretative, si riscontrano concettualmente similari un po’ ovunque. A differenza della società contemporanea che tende a privatizzare e medicalizzare il decesso, nel passato la morte, all’interno della propria famiglia, era un evento solenne e circostanziato, che coinvolgeva la collettività e che seguiva precise e codificate procedure. L’estrema unzione segnava nella cultura cattolica l’inizio dei rituali funebri. Il parroco si recava a portare il viatico agli ammalati protetto da un apposito ombrello per riparare l’ostia, preceduto da un chierichetto con un campanello, che suonava continuamente lungo il tragitto. Fino al XVII secolo al parroco quanto portava l’olio santo doveva essere donata una gallina e talora una forma di pane. In alcuni paesi il suono delle campane annunciava una persona agonizzante, al fine di richiamare in chiesa le pie donne a pregare per la sua anima o quando il parroco partiva dalla chiesa per portare l’estrema unzione.

La sepoltura

Per la vestizione del cadavere veniva scelto il vestito più bello: tante persone usavano dare disposizioni precise ai parenti in merito all’abito che volevano per la sepoltura. Quando il defunto apparteneva a una compagnia o un ordine religioso veniva vestito con la divisa. Se il morto era il capofamiglia gli si metteva in tasca il portafoglio con una piccola somma di denaro. In alcuni paesi se il morto era l’ultimo della sua classe la bandiera della leva veniva sepolta con lui. La vestizione del cadavere in genere era affidata a persone estranee alla famiglia, quasi sempre i più vecchi del luogo, uomini o donne in funzione del sesso del defunto; questi per la loro opera ricevevano in dono un vestito nuovo. Nelle mani del morto veniva messo una corona del rosario e accanto alla bara collocati lumini o ceri. Per diffusa tradizione, il morto non doveva mai essere lasciato al buio e da solo: pertanto i parenti dal momento del trapasso alla partenza del funerale si alternavano per la veglia accanto al cadavere.

Il suono delle campane come annuncio

L’annuncio della scomparsa di una persona avveniva con il suono delle campane: per far capire se era morto un uomo o una donna, i rintocchi erano rispettivamente tre o due. Un suono particolare, con un numero maggiore di rintocchi, serviva ad annunciare alla popolazione la scomparsa del parroco, del vescovo, del papa. Il passaggio dalla vita terrena al mondo dei defunti era regolato da precise pratiche cerimoniali e azioni da compiere. Occorreva consentire all’anima di andarsene all’aldilà, senza potervi tornare, se non nelle occasioni canoniche, come il giorno dei morti. Dopo il decesso porte e finestre devono essere lasciate aperte, per consentire all’anima di uscire. E dopo che è stato portato via il cadavere occorreva chiuderle per evitare che l’anima vi facesse ritorno. Dopo il trapasso si seguivano gesti rituali quali il fermare gli orologi, girare gli specchi, spegnere il fuoco nel camino.

Funzione con semplicità e naturalezza

Un tempo la morte avveniva in casa e i famigliari vivevano insieme l’agonia del morente. La sepoltura avveniva con semplicità e naturalezza, rispettando usi e consuetudini locali tramandati di generazione in generazione. Solo per i ricchi la cerimonia era più sfarzosa. I riti funebri iniziavano con la recita del rosario, nella casa dove era avvenuto il decesso, ogni sera precedente il giorno del funerale. Solitamente la cerimonia funebre avveniva dopo una o due notti dal decesso. Ritardi nelle sepolture potevano verificarsi per disaccordi con il sacerdote che doveva celebrare il rito funebre: emblematico il caso di Piovà Massaia, dove nel Settecento si verificarono ripetuti episodi in cui il parroco si rifiutava di accompagnare la salma la cimitero che rimaneva così in chiesa per più giorni. I funerali potevano essere, in base alle disponibilità economiche della famiglia, di maggiore o minore solennità: erano previsti funerali di prima classe con tre sacerdoti concelebranti, di seconda con due e di terza con uno solo. Il trasporto della salma alla chiesa e quindi al cimitero avveniva a spalle o su un carro agricolo trainato da buoi. Successivamente apparvero i carri funebri trainati da uno o più cavalli e dagli anni Trenta i furgoni funebri, diffusi in ambito rurale solo nel secondo dopoguerra. I cavalli erano imbardati con gualdrappa nera, pennacchio e fiocchetti.

Le offerte dietro al feretro

Durante il funerale venivano portate dietro al feretro le offerte di farina, sale, pane, uova, ecc., usanza proibita a metà Settecento. Nell’Alta Langa venivano cotte delle grosse pagnotte, distribuite a parenti ed amici assieme a una candela.Ad accompagnare il corte funebre erano i componenti delle Compagnie e delle Confraternite, vestiti nei loro paramenti, e i bambini dell’asilo, che portavano le candele. Sino tutto l’Ottocento e in alcune località anche oltre, i parenti del defunto e in specie le femmine nei momenti salienti del rito funebre (all’uscita della bara di casa, dopo la messa, durante il seppellimento) scoppiavano in pianti e grida, per attestare pubblicamente il proprio affetto verso il morto. C’erano anche delle donne (chiamate piurasse) che, dietro compenso, seguivano i funerali piangenti.

Un’emina di grano sull’altare

Un’usanza funebre diffusa sino a inizio Novecento era l’offerta: se moriva un capofamiglia, in chiesa veniva portata un sacchetto con un’emina di grano, collocandolo sull’altare con al centro una torcia accesa; se invece era la moglie del capofamiglia, nel sacchetto si metteva mezza emina. In alcune località c’era l’usanza del bacio della stola: al termine della messa funebre, il sacerdote poneva una vecchia stola sulla balaustra dell’altare e tutti i congiunti del morto, tenendo una candela accesa in mano effettuavano un giro attorno al feretro e quindi baciavano la stola. Terminata la messa, il feretro veniva portato al cimitero. Calata la bara nella fossa i parenti più prossimi provvedevano a gettare le prime manciate di terra. All’uscita del cimitero avveniva la distribuzione di pane in suffragio dell’anima del morto ai poveri.

L’elaborazione del lutto

Terminati i riti funebri, i parenti e coloro che avevano collaborato al funerale (vestizione della salma, scavo della fossa, ecc.) si riunivano in casa per il pranzo. Questo poteva essere frugale o un vero e proprio banchetto, secondo un’usanza già praticata dai popoli greci e romani e ampiamente diffusa in Italia sino alla prima metà del Novecento. A Passerano Marmorito l’uso del pranzo funebre è documentato dal beato Giuseppe Allamano, che in una conferenza alle suore Missionarie della Consolata raccontò che: «una volta a Passerano, paesetto dove io andavo a passare un po’ di campagna da un mio zio parroco, quando moriva qualche capo di famiglia si faceva un gran banchetto. Pare una cosa crudele, eppure no, i primi cristiani facevano così».

La messa di trigesima

Il defunto veniva ricordato dai propri cari con funzioni funebri, normalmente con la messa di trigesima, a circa un mese dalla morte. Una consuetudine riservata a persone particolarmente devote era la celebrazione delle messe gregoriane, che prendono nome dal pontefice Gregorio I che le ha istituite alla fine del VI secolo. Il santo ebbe una visione secondo la quale l’anima per cui sono celebrate trenta messe viene subito liberata dal Purgatorio. Il sacerdote incaricato di celebrare le trenta messe in giorni consecutivi non può interromperle per nessuna ragione: se ciò dovesse accadere, deve riprendere dall’inizio l’intera serie.

Il periodo di lutto era regolato soprattutto dall’abbigliamento femminile e la durata variava dal rapporto di parentela. Per la morte del coniuge, di un genitore, di un figlio era previsto, a seconda della località, un periodo tra due e quattro anni (in cui la donna poteva indossare solo vestiti neri); come segno distintivo del lutto gli uomini portavano un nastro nero sul cappello.

Franco Zampicinini

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