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Omicidio di Valerio Pesce a Canelli2
Cronaca
Corte d’Assise

Canelli, il pm chiede 21 anni di carcere per il padre che uccise a coltellate il figlio

Alle battute finali il processo in Corte d’Assise. In oltre due ore il pm Cotti ha ripercorso tutta la dolorosa vicenda, dalla chiamata al 112 dell’uomo che ha subito detto “Venite, ho ammazzato mio figlio”. La difesa chiede condanna inferiore

Ultime battute del processo che vede imputato Piero Pesce, il canellese sotto processo in Corte d’Assise ad Asti per l’omicidio del figlio Valerio, 28 anni, avvenuto nel ovembre del 2022 nella loro abitazione di viale Risorgimento.

Oggi è stata l’udienza in cui si sono raccolte le fila del processo che non aveva segreti nè gialli da svelare: è stato lui stesso, quella maledetta mattina a chiamare i carabinieri chiedendo che intervenissero perchè aveva ucciso il figlio e tentato lui stesso di suicidarsi. Fin dal primo interrogatorio sono stati anche chiari i motivi di tale disperato gesto, ovvero il momento di grande difficoltà che stava attraversando il ragazzo ludopatico e dedito all’alcol con ripercussioni economiche anche sulla tabaccheria di sua proprietà ad Alba. In carcere da allora, per Piero Pesce il processo è stato celebrato per trovare il giusto equilibrio “in punto pena”, ovvero per decidere la condanna più congrua tenendo conto della gravità dell’atto compiuto ma anche di quella parziale capacità di intendere e volere al momento dell’omicidio giustificata da una profonda depressione che lo accompagnava dalla morte della moglie avvenuta cinque anni prima dopo otto anni di calvario terapeutico.

Ed è su questo che il pm Cotti, in oltre due ore di requisitoria argomentata e ordinata, ha basato la sua richiesta finale: 21 anni, ottenuti “scalando” dal massimo previsto dalla legge per l’omicidio volontario che è l’ergastolo. In fase di richiesta pena ha escluso l’iniziale aggravante della premeditazione che, alla luce delle testimonianze e degli approfondimenti in aula, appariva evidente non esserci. A quel punto ha ritenuto equivalenti le attenuanti e la seminfermità mentale con le altre due aggravanti rimaste in piedi, ovvero l’aver cagionato la morte di un congiunto diretto e averlo fatto quando la vittima era in uno stato di minorata difesa, ovvero mentre dormiva nella sua camera.

Su questa decisione hanno pesato molto le conclusioni del perito psichiatra forense dottor Franco Freilone che ha paragonato lo stato di depressione grave maggiore diagnosticata a Pesce fin dal primo ricovero a poche ore dall’omicidio al Reparto di Psichiatria dell’ospedale di Asti ad una patologia mentale che ha guidato la sua mano quando, all’alba, ha preso un coltello in cucina e lo ha usato contro il figlio.

Se sui fatti c’è sostanziale concordanza fra accusa e difesa, quest’ultima, sostenuta dall’avvocato Carla Montarolo, ha chiesto che le attenuanti debbano prevalere sulle aggravanti. Può sembrare una richiesta tecnica di poco conto, ma in realtà potrebbe fruttare all’imputato un ulteriore e sensibile sconto della pena.

Anche oggi in aula erano presenti le anziane madre e suocera di Pesce e alcuni parenti e amici che nel corso di tutto il processo hanno voluto essergli accanto.

La Corte d’Assise, presieduta dal giudice Elisabetta Chinaglia, ha rinviato a maggio per le eventuali repliche e la sentenza.

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