La tragedia della Divisione Acqui a Cefalonia
In occasione della “Giornata della memoria”, dedicata alla spaventosa tragedia dell’Olocausto e celebrata nel salone della Provincia di Asti, il Prefetto di Asti, dott. Alfonso Terribile, ha consegnato ai familiari di Paolo Romagnoli la “medaglia d’onore” concessa dal Presidente della Repubblica agli I.M.I., ossia gli internati nei lager tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale. Se l’Olocausto si pone in diretta relazione con le leggi razziali, la tragedia degli I.M.I. discende dallo sfascio dell’Esercito Italiano conseguente all’armistizio dell’8 settembre 1943, quando il Re e il maresciallo Pietro Badoglio fuggirono a Brindisi, lasciando privi di direttive tutti i comandi delle Divisioni dislocate in Italia, in Francia e nei Balcani.
25 luglio 1943
Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini i Tedeschi avevano intuito che l’Italia potesse uscire dal conflitto: avevano perciò preparato piani dettagliati di intervento e il 9 settembre li misero in atto, occupando stazioni, aeroporti e ogni altro punto strategico. Specie nei Balcani il disastro fu immenso: a fronte di 600.000 Italiani stavano 300.000 Tedeschi, ma la confusione fu tale che spesso bastarono pochi militari germanici a catturare intere Compagnie.
La tragedia della Divisione “Acqui”
L’episodio più tragico fu quello che riguardò la Divisione “Acqui”, dislocata a Cefalonia e Corfù e comandata dal gen. Antonio Gandin: alla richiesta tedesca di consegnare le armi la “Acqui” oppose un netto rifiuto e fra il 15 e il 22 settembre 1943 si combattè aspramente, dovendo poi arrendersi per l’impossibilità di contrastare i bombardamenti degli aerei “Stukas” tedeschi. Gli Italiani catturati in armi furono fucilati a migliaia per espresso ordine di Hitler: altri prigionieri morirono in una nave che affondò e i restanti furono avviati alla prigionia.
Fuori dalla Convenzione di Ginevra
Il 20 settembre 1943 Hitler stabilì che i militari catturati e deportati in Germania (430.000 dai Balcani, 58.000 dalla Francia e 321.000 dall’Italia) non fossero da considerare prigionieri di guerra ma “Italienische Militär Internierte”, ossia I.M.I. (Internati militari italiani), escludendoli in tal modo dalle norme e dalle tutele fornite dalla Convenzione di Ginevra ai prigionieri di guerra. Il loro destino fu quello di essere impiegati come forza lavoro dovunque servisse: nelle campagne, nelle industrie con un orario di 57 ore settimanali o nelle miniere, con 52 ore di lavoro in sei giorni. Da subito sprezzantemente chiamati “badoglioten” e considerati traditori, gli italiani ebbero le condizioni di lavoro peggiori e l’alimentazione più scarsa.
L’arrivo a Klagenfurt
Paolo Romagnoli era uno di questi I.M.I.: al termine dei combattimenti a Corfù riuscì a sfuggire alla cattura, ma venne preso prigioniero una decina di giorni più tardi, quando le fucilazioni erano cessate. Attraverso viaggi in vagoni piombati, con marce estenuanti durante le quali i prigionieri che cadevano a terra sfiniti venivano uccisi sul posto giunse a Klagenfurt, dove fu liberato dagli Alleati nel maggio del 1945. Ai prigionieri era stato più volte proposto di entrare nell’esercito di Salò o di collaborare come ausiliari della Wehrmacht, ma solo il 12% accettò e spesso non per ideologia, ma per fame. Come decine di migliaia di altri italiani Paolo Romagnoli patì privazioni e umiliazioni, ma come loro non volle mai accettare di collaborare con la R.S.I. e con i Tedeschi, preferendo rimanere in prigionia piuttosto che stare dalla parte dei massacratori della “Acqui”. Ecco perché, almeno nella “giornata della memoria”, non debbono essere dimenticati i tanti giovani di allora che seppero scegliere di mantenere la loro dignità di uomini.