Ogni paragone tra due fenomeni distinti, avvenuti in luoghi e condizioni differenti, va preso con cautela; non serve un fisico del CERN per capirlo. Eppure in comunicazione, l'accomunare un
Ogni paragone tra due fenomeni distinti, avvenuti in luoghi e condizioni differenti, va preso con cautela; non serve un fisico del CERN per capirlo. Eppure in comunicazione, l'accomunare un "modello" a potenziali "proseliti" è ormai consuetudine, fosse solo per trasmettere al potenziale consumatore un senso di familiarità complice ("I nuovi Beatles"), la stessa strizzata d'occhio che molti casi conduce all'acquisto, leggi: successo commerciale.
Mercoledì sera, al Diavolo Rosso, si proiettava il documentario "Barolo Boys" ? storia del manipolo di produttori langaroli che, tra gli anni Ottanta e Novanta, resero il Barolo un vino internazionale ? e in contemporanea, coinvolgendo produttori astigiani di Barbera, si metteva sul tavolo la domanda: dove sono, se ci sono, i "Barbera Boys"? Un paragone bello e buono, insomma.
E, come fatto notare con ammirevole onestà intellettuale da Tiziano Gaia, regista del documentario insieme a Paolo Casalis, totalmente fuorviante: «I Barolo Boys erano le persone giuste, al momento giusto, al lavoro sul vitigno giusto. Il loro non è un modello che sia possibile replicare; ma ci sono molte altre storie interessanti ancora da scrivere». La vicenda originale, di per sé, è "inspiring", come direbbero i fanatici di corsi motivazionali; Gaia e Casalis -? quest'ultimo già dietro la macchina da presa per brillanti "catture" su schermo digitale di sensibilità emergenti, come la tutela del suolo in "Langhe Doc" e la frenesia (demente) da turismo nel mockumentary "Il passo dell'elefante" ?- se la sono cavata egregiamente nel raccontare in audiovisivo le vite, l'ostinazione e la rivoluzione di un gruppo di persone, concorrenti ma anche amici, innovatori nei propositi ma rigorosi nel metodo.
Battaglie che toccano nel vivo la tradizione e perciò attirano polemiche e rovinano famiglie (quella di Elio Altare, diseredato dal padre alla scelta di vinificare in barrique); discussioni generazionali mai sopite, vissute in inattesa quadridimensionalità ?- diabolico Sergio Miravalle ?- grazie al filmato, inserito nel film, del confronto tra Altare e un anziano Bartolo Mascarello sul palco dello stesso Diavolo Rosso in cui avveniva la proiezione. Difficile sia sfuggita ai presenti, nel dibattito seguito al documentario, la distanza dei produttori di Barbera presenti dall'inarrivabile modello: variamente distribuiti geograficamente, diversi tra loro per esigenze, a monte un vitigno che soffre per basso reddito agli agricoltori; eventuale possibile analogia, del tutto in fieri, quella con il "Nizza docg", ufficiale dalla vendemmia 2014. Una cattiva notizia? Non direi. I paragoni, si diceva in apertura, sono solo un'etichetta. L'importante è quello che si mette nella bottiglia.
Fulvio Gatti