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Storia dell’internato Pietro Rossomatricola n.7282, sopravvissuto
Cultura e Spettacoli

Storia dell’internato Pietro Rosso
matricola n.7282, sopravvissuto

Una matricola cucita sulla divisa a righe a cancellare il nome e l'identità. Sempre sul petto, un triangolo rosso ad indicare la natura dell'internamento: oppositore politico. Tra le mani una

Una matricola cucita sulla divisa a righe a cancellare il nome e l'identità. Sempre sul petto, un triangolo rosso ad indicare la natura dell'internamento: oppositore politico. Tra le mani una pala per i lavori forzati, per togliere la neve e riparare strade mentre i morsi della fame attanagliano lo stomaco e il pensiero va malinconico alla famiglia lasciata a casa. Questa era la situazione del canellese Pietro Rosso, matricola n. 7282 nel campo di concentramento di Bolzano. Un numero in mezzo alla folla di altri internati, costretti a vivere alla giornata e a sopravvivere alle crudeltà dei carcerieri. Pietro Rosso è morto nel 2014 ma prima di andarsene ha potuto raccontare la sua storia a Giuseppe De Paolini, in una lunga intervista depositata sul sito on line "Memoro.org" lasciando in eredità i suoi ricordi.

«Fui catturato a Canelli dagli Arditi della San Marco il 4 dicembre 1944 e deportato in Trentino. Ogni mattina le SS ci svegliavano prima delle 6, per poi radunarci nel cortile e fare la conta ? ricorda Rosso ? Essendo prigionieri politici non potevamo girare per il campo, eravamo sempre chiusi nelle baracche. Gli altri prigionieri venivano invece mandati a lavorare negli stabilimenti della Lancia. Ogni tanto i tedeschi facevano una selezione e coloro che venivano scelti venivano mandati nei campi in Germania. Io fui fortunato, forse perché seguivano un ordine alfabetico. Fatto sta che rimasi a Bolzano con altri cinquanta detenuti. Da lì fummo spostati nel sottocampo di Vipiteno (BZ) dove eravamo costretti a lavorare alla manutenzione delle strade».

Con il passare dei mesi e l'avvicinarsi delle truppe Alleate e dell'Armata Rossa il morale dei tedeschi scende ai minimi storici. «Non avevamo notizie, come prigionieri eravamo fuori dal mondo ma capimmo che il vento stava cambiando. Il 20 aprile 1945 insieme a un compagno decidemmo di fuggire». Segue il lungo ritorno verso casa. Non c'erano treni, il cibo scarseggiava e molte strade erano impraticabili. Pietro Rosso raggiunge Trieste, dove ha notizia del ritiro delle truppe tedesche. Raggiunge Bergamo e sulla strada per Milano riceve la notizia della liberazione.

«Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Finalmente potevo tirare il fiato» ricorda. Giunto a Milano incontra alcuni partigiani che lo spronano ad andare in Piazzale Loreto, dove erano state appese le spoglie di Mussolini. «Mi rifiutai. Per me le persone non vanno uccise ma processate» commenta Rosso. Raggiunge Novara e in treno arriva ad Arquata Scrivia. Una volta ad Alessandria prende il treno che lo fa scendere a Bazzana di Mombaruzzo. Da lì raggiunge Canelli a piedi. La storia di Pietro Rosso, così come quella di altri canellesi internati nei campi nazisti fu raccolta nel libro nel libro Gli Ultimi Testimoni, di Gianna Menabreaz mentre le fotografie di quegli anni sono andate ad arricchire gli archivi di Memoria Viva di Canelli, associazione culturale che, non a caso, quest'anno ha voluto dedicare al ricordo di Pietro Rosso gli appuntamenti inerenti alla Giornata della Memoria.

Lucia Pignari

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