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Naim, Rahid e gli altri: le storiedei pachistani accolti a Capriglio
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Naim, Rahid e gli altri: le storie
dei pachistani accolti a Capriglio

Si parla sempre di numeri quando ci si riferisce ai profughi e troppo poco delle storie che si portano dietro. Che sono le stesse che finiscono poi nei fascicoli da presentare alla Commissione che

Si parla sempre di numeri quando ci si riferisce ai profughi e troppo poco delle storie che si portano dietro. Che sono le stesse che finiscono poi nei fascicoli da presentare alla Commissione che dovrà decidere se ritenerli rifugiati oppure no. Ne spulciamo qualcuna da quelle preparate dal gruppo di pakistani e bengalesi arrivati nel piccolo paese di Capriglio a inizio maggio, ospiti dell'ostello che porta il nome della madre di Don Bosco.

Naim, 29 anni, con moglie e due figli. «Ho iniziato a lavorare a sei anni in una fabbrica tessile e non sono mai andato a scuola. Dopo 8 anni sono andato in Libia per guadagnare di più ma ho trovato la guerra civile ed è stato terribile: sono stato derubato, picchiato, insultato e sono scappato di nuovo, questa volta verso l'Italia».

Rahid, 37 anni, è il cuoco del gruppo, ha moglie e due figli in Pakistan. «Sono figlio di una famiglia poverissima e a sei anni ho cominciato a lavorare come garzone in un negozio di verdure e portavo il cibo ai ristoranti. Le cucine sono i posti più belli del mondo. Piano piano ho imparato da solo a cucinare e sono diventato cuoco. Sono andato in Libia per lavorare perchè in Pakistan non avrei mai potuto fare il cuoco, sono di una casta troppo bassa».

Qdus, 36 anni. «Vengo da una famiglia povera e non sono mai andato a scuola. Non ho neppure potuto sposarmi perchè ero troppo povero per avere diritto ad avere una moglie. Per questo sono andato in Libia, per cercare di guadagnare qualcosa per avere una famiglia mia».

Anis, 26 anni. «Sono di etnia pastun, cioè la mia famiglia è di origine afghana. Non sono andato a scuola e non conosco la politica, ma la politica è entrata lo stesso nelle nostre case insieme a centinaia di talebani scappati dall'Afghanistan, cacciati dagli americani. Da noi hanno seminato morte, distruzione e orrore a non finire. Nel mio villaggio è scoppiata una bomba durante una manifestazione proprio contro i talebani. Mio fratello è morto insieme ad altre 23 persone e anche io sono stato ferito ad un fianco. Sono scappato verso qualsiasi posto del mondo dove non ci siano integralisti islamici».

Ali Khan. «Io sono di famiglia borghese e sono andato a scuola, avevo un negozio, una casa, una moglie e due bambini. Mia madre voleva per noi una vita felice e si è opposta ad un brutto matrimonio cui volevano costringere mia sorella: per questo è stata uccisa e mia sorella è fuggita. Poi hanno preso di mira la mia famiglia perchè io e mia moglie abbiamo fatto vaccinare i nostri figli contro la poliomielite da una ong europea. Ora mia moglie e i miei figli vivono ospiti di mio cognato e io sono scappato qui per salvare la mia vita e la loro».

Sulman, 22 anni. «Anche io provengo da una famiglia borghese e sono rimasto a studiare all'Università in Pakistan sperando poi di poter emigrare, ma era troppo legata alla religione e agli studenti non è più permesso di avere il visto di studio per andare nelle università occidentali. Mi sono scoraggiato, ho lasciato tutto e sono andato in Libia ma lì ho trovato la guerra, sono stato intossicato dalla diossina e sono fuggito in Italia».

Saquib, 21 anni. «Vengo da una poverissima famiglia di agricoltori. A 17 anni la mia famiglia mi ha obbligato a sposare la ragazza promessa sposa di mio fratello che non la voleva più. Non volevo che sulla mia famiglia cadesse il disonore, l'ho sposata, abbiamo una bambina di due anni e sono partito per poterle mantenere e poter pagare la scuola a mia figlia».

d.p.

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