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Barberi: «La scienza applicata all'emergenza»
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Barberi: «La scienza applicata all'emergenza»

Se l’alluvione del Piemonte nel 1994 ha rappresentato una pietra miliare nella storia recente della Protezione Civile, un grande merito va riconosciuto al professor Franco Barberi, vulcanologo di

Se l’alluvione del Piemonte nel 1994 ha rappresentato una pietra miliare nella storia recente della Protezione Civile, un grande merito va riconosciuto al professor Franco Barberi, vulcanologo di fama internazionale che a pochi mesi dal disastro venne nominato Sottosegretario del Dipartimento.
Fu la prima volta che quel ruolo venne ricoperto da un “tecnico” e non da un politico, e la sua impronta fu determinante non solo per l’impulso che venne dato ai lavori di messa in sicurezza delle città allagate, ma per la messa a sistema di organizzazione, procedure e automatismi che, purtroppo, si sarebbero rivelati utili in molti altri casi successivi di dissesto idrogeologico.

Come è cambiata la Protezione Civile dal 1995 ad oggi?
Da quella terribile esperienza sono nate molte cose buone. Per quanto riguarda squisitamente la Protezione Civile va ricordato che all’epoca vigeva l’assoluta disorganizzazione, non vi era alcun sistema di previsione meteo, nessuna valutazione di rischio e, soprattutto, non esisteva una rete di comunicazione fra Comuni, tanto che proprio l’alluvione del 1994 colse tutti ugualmente di sorpresa nonostante l’onda di piena avesse impiegato ore prima di disperdersi.
Cosa cambiò nell’organizzazione?
Intanto venne creata una rete di monitoraggio costante delle precipitazioni e delle altezze idrometriche dei fiumi con attenzione particolare alle previsioni meteo circoscritte e all’allargamento della Protezione Civile anche agli enti locali, trasferendo maggiori responsabilità a Comuni, Province e Regioni. Fu un processo lungo, intendiamoci, durato molti anni, ma che ancora oggi è valido.

Lei fu un punto di riferimento molto importante per i Comitati degli alluvionati che potevano contare sul suo ruolo di mediatore con Governo e Parlamento.
Sì, anche questo fece parte del cambiamento della gestione della Protezione Civile. Per la prima volta vennero ascoltate le persone direttamente coinvolte nel disastro e mi resi conto che i fondi per la ricostruzione erano sì stati stanziati, ma solo sulla carta, la burocrazia non riusciva a condurre l’erogazione di essi. Così andai ad analizzare tutte le varie leggi che, in passato, erano state emanate in tema di ricostruzione post emergenziale e ne feci una sintesi, con un coinvolgimento diretto degli enti locali che avevano un contatto forte con i cittadini in attesa dei finanziamenti. Con provvedimenti e ordinanze successive che tendevano ad “aggiustare il tiro” e rendere sempre più efficaci le norme a favore di privati, imprese, opere pubbliche.

Un atteggiamento molto operativo, una novità per la Protezione Civile di allora.
Per tutta la durata del mio incarico ho sempre applicato al Dipartimento la metodologia che adottavo nel lavoro scientifico.
Molto importante fu anche il suo impegno nell’accelerazione delle opere di prevenzione.
Erano in cima alle mie priorità, perchè era fondamentale agire prima che un’altra piena rimettesse in ginocchio lo stesso territorio. La riprova della bontà di quelle opere arrivò con le eccezionali piogge del 2000 che risparmiarono le zone alluvionate nel 1994 proprio grazie alle barriere realizzate contro l’acqua.

Lei lavorò a stretto contatto con i Comitati degli Alluvionati. Cosa ricorda di quella collaborazione inedita?
Fu una novità che portò a grandissimi risultati, perchè loro vivevano sulla loro pelle le necessità più urgenti e me le riferivano. Una linea di comunicazione corta che non sempre le amministrazioni locali erano in grado di attivare. Ritengo sia stato un percorso molto democratico di grande arricchimento personale, anche in termini di amicizia e stima.
A maggio del 1995 lei venne ad effettuare il primo sopralluogo nel Piemonte ancora ferito e infangato. Cosa ricorda di quel viaggio?
Intanto ricordo che mi imposi per non avere il corteo di auto blu ed autorità al seguito. Ero lì per vedere con i miei occhi ciò che gli alluvionati disperati avevano lamentato a Roma e verificai che era tutto vero. Come era vero che si era perso molto tempo e c’era un gran lavoro da fare.
Cominciò in quel momento il lungo e complesso lavoro che riguardò temi e ambiti più ampi dell’alluvione del Piemonte. Un lavoro di cui vado fiero ancora oggi.

Abbiamo ancora tutti negli occhi le immagini di Genova alluvionata e ferita. Possibile che, vent’anni dopo, non sia cambiato nulla?
L’Italia, purtroppo, è un Paese morfologicamente molto fragile e, a questa sua caratteristica, si aggiunge una gestione del territorio irrazionale che è durata per troppo tempo.Ciò porta ad ereditare  situazioni assurde come quella di Genova. Ma niente giustifica i morti: oggi esistono sistemi di allerta che non impediscono l’inondazione ma possono salvare la vita. Le vittime non sono più inaccettabili.
Perchè, secondo lei, non si è fatto nulla per evitare questi disastri d’acqua ormai ciclici?
Perchè la cultura della prevenzione è andata scolorendosi negli anni mentre dovrebbe essere una priorità assoluta con risorse ad essa destinata. Risorse che rappresenterebbero sia la messa in sicurezza graduale dei posti più a rischio, sia un rilancio economico. Invece non è mai in cima alla lista degli obiettivi.

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