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Attualità

Storia del profugo Nosa
Obiettivo: rimanere vivi

In questi giorni, i più fortunati tra noi raccontano a colleghi, annoiati, la storia di viaggi estivi, di spiagge e di conquiste al mare. Racconti di viaggio. Ma anche partire da Benin City, una

In questi giorni, i più fortunati tra noi raccontano a colleghi, annoiati, la storia di viaggi estivi, di spiagge e di conquiste al mare. Racconti di viaggio. Ma anche partire da Benin City, una delle più grandi città dell'Africa e attraversare il mare su un barcone è un viaggio. Nosa ha 24 anni, è nigeriano, è partito da Lagos quasi due anni fa. Ha attraversato il deserto. In Libia è sopravvissuto alla guerra civile. A giugno è salito su un barcone ed è scappato in Italia. Adesso è ospitato al Re-Hub (refugees hub) Villa Quaglina in Asti.

Qualche sera fa ha raccontato il suo viaggio e fatto vedere i video che ha conservato sulla "memory card" del suo cellulare. Video che parlano di morte. Tutto è cominciato perché Nosa, nel suo paese, ha scelto l'impegno politico. Solo nel partito sbagliato. Da noi in casi del genere si recupera un posto di sottogoverno o alla peggio si torna a fare il proprio mestiere. Per Nosa invece è cominciata la fuga, prima a Lagos. Dove la sua storia è quella dei tanti migranti che lavorano per cercare di pagarsi il viaggio. Poi il Niger, Mosul, i passeur fino alla Libia, i barconi.

Un viaggio inframmezzato dai soprusi delle gendarmerie locali, dalla mancanza di lavoro, di soldi, di cibo e speranze. Spesso imprigionato con l'accusa che i suoi documenti fossero falsi. Senza nessuna possibilità di difendersi, con l'unica idea di libertà rappresentata da un prestito, che andrà poi restituito con il lavoro che non c'è. Per provare ad uscire da una condizione molto simile alla schiavitù. Per noi sono tutti africani ma stiamo parlando di spazi infiniti, con popoli e lingue diverse. Arrivato in Libia la situazione è forse ancora peggiore, ci sono veri e propri campi di concentramento, nelle stazioni di polizia, che arrivano a contenere fino a cinquecento persone. In più in quel momento scoppia la guerra civile. L'unico obiettivo resta, ancora una volta, rimanere vivi. «Una mattina – ha raccontato Nosa – sento un ragazzino gridare: "Gheddafi è nostro padre". Mente lo guardo arriva un pick-up con sopra dei miliziani. Lo ammazzano a colpi di fucile e se ne vanno. Avrà avuto dieci anni».

La storia si ripete ciclica, sempre uguale. Ti trovano senza documenti e ti portano alla stazione di polizia. I racconti di questi ragazzi sono storie, spesso uguali, di morte, diritti e dignità negati. «Una mattina – ha proseguito Nosa – ci hanno svegliati presto ci hanno portati tutti su un piazzale. Lì avevo più paura del solito. Ci hanno fatto fare il test dell'HIV e chi era ammalato veniva rimandato al proprio paese. Il ragazzo di fianco a me, che forse era malato, ha provato a scambiare la sua provetta con la mia. Me ne sono accorto e non gliel'ho lasciato fare. Così adesso sono ancora vivo». Un viaggio che potrebbe essere bellissimo. O che forse davvero è bellissimo perché a pensarci bene ci ha portato tanti ragazzi.

Lodovico Pavese

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