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Pietre, cemento e "cappotti" sformati a Roccaverano
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Pietre, cemento e "cappotti" sformati a Roccaverano

É sempre difficile pronunciarsi su edifici destinati ad uso pubblico, perché rappresentano i simboli d’appartenenza ad una comunità: diventano sfondi, luoghi di vita degli abitanti e, nel

É sempre difficile pronunciarsi su edifici destinati ad uso pubblico, perché rappresentano i simboli d’appartenenza ad una comunità: diventano sfondi, luoghi di vita degli abitanti e, nel contempo, paesaggio per i turisti.
Risulta ancor più complesso pronunciarsi quando il dibattito si fa aspro e poco sereno fra la cittadinanza, che vive quotidianamente l’opera, e il progettista che l’ha pensata e realizzata. Quest’ultimo è colpevole, per i primi, di aver imposto una soluzione non condivisa, mentre il tecnico rivendica un’accurata ricerca progettuale, basata sullo studio di lavori d’illustri architetti stranieri e si fa scudo con le lodi della critica specializzata del settore. Questo è il caso di Roccaverano, piccolo paese della Langa Astigiana, coinvolto in un dibattito trentennale sul proprio palazzo municipale.

L’edificio, progettato fra il 1979/85 dall’architetto astigiano Giulio Balbo, ha da sempre diviso l’opinione pubblica, sia per la particolarità delle forme che per il materiale usato, il cemento armato a vista; molti lo hanno percepito con un certo disagio considerandolo come un non-finito, mentre per altri rappresentava un’opera audace e contemporanea.
Questa lunga disputa è di recente sfociata in un progetto di revisione dell’immobile, di mascheramento, di camouflage: approfittando di un bando di finanziamento della Regione Piemonte a favore d’interventi di contenimento delle dispersioni termiche negli edifici pubblici, si è scelto di nascondere le forme originali del fabbricato.
L’operazione, in parte giustificabile quale risposta di una amministrazione alle continue richieste avanzate da alcuni abitanti di “porre rimedio” alla mano insensibile dell’architetto verso i luoghi e la storia locale, suscita in noi perplessità, legate al metodo adottato, all’iter seguito per l’intervento.

Il paesaggio è cultura: rappresenta, filtrato dallo sguardo dello spettatore, un territorio. È soggettivo. È percezione.
Per intervenire su un edificio pubblico, che di fatto è anche paesaggio e possiede un suo valore, occorre cautela, studio. È opportuno che il proprietario riconosca tale valore: magari non lo condivide, non lo apprezza e alla fine dello studio decide per una forte revisione, un mascheramento, o addirittura l’abbattimento. Però tale decisione dev’essere il frutto di un attento studio preliminare: architettonico, paesaggistico, culturale.
La giustificazione del miglioramento delle prestazioni energetiche dell’edificio non può ritenersi sufficiente: un rivestimento esterno non è l’unica via, è solo la più facile.
Nel caso di Roccaverano la volontà di mascherare il cemento armato a vista è palese e dimostra poco rispetto nel considerare l’opera, agendo in maniera soggettiva e un po’ a senso unico, compromettendola.
Se il problema fosse stato solo quello energetico, si sarebbe potuto optare per un isolamento termico applicato dall’interno dei vani, ottenendo risultati simili di comfort, ma salvaguardando l’estetica e l’integrità.
Desta inoltre forti dubbi la regolarizzazione delle forme, la demolizione del cupolino di sommità, operazioni che ne hanno pesantemente alterato le proporzioni.
Per spiegarci, è come se ad un palazzo medioevale situato nel centro storico di una qualsiasi città italiana, dotato di archi e fregi antichi in facciata, si decidesse di sovrapporre esternamente uno strato isolante, magari abbassandone la torretta o addirittura eliminarla. Cosa diventerebbe? Semplice edilizia.
Questo tipo di riflessione dev’essere perciò compiuta dagli amministratori prima di compiere tali scelte e assegnare un incarico di progettazione, che per un bene pubblico come il Municipio di Roccaverano non dovrebbe avvenire tramite un semplice incarico diretto. Vista la complessità del tema, solo un concorso aperto, un bando pubblico, può garantire un alto livello di proposte progettuali, e consente d’acquisire soluzioni e valutazioni, vagliando con cura l’intervento migliore, sia estetico che economico. Quello studio preliminare è chiaramente mancato nel caso in esame, banalizzando il fabbricato e condannandolo all’anonimato.
Non sarebbe stato male consultare anche il progettista dell’opera, per analizzare con lui motivazioni e scelte del suo operato: esse sarebbero state importanti per formulare il bando di concorso sopra citato.
Si auspica quindi che, in futuro, vi sia spazio per un maggiore confronto fra le parti, per evitare che episodi simili possano ripetersi, poichè solo il dibattito li può scongiurare. Tali considerazioni sono emerse con chiarezza nel corso della prima edizione di A.S.T.I. FEST, mostrando la via verso una progettazione partecipata.
Se l’architettura ed il paesaggio sono beni sociali, occorre che tutte le parti in gioco si confrontino, evitando inutili contrapposizioni, così da perseguire il bene comune ed aumentare il senso di appartenenza della popolazione.

Fabrizio Aimar con il gruppo di architetti di A.S.T.I. FEST

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