Cerca
Close this search box.
"Qui per non diventare terroristi"Due afghani con la famiglia a Settime
Attualità

"Qui per non diventare terroristi"
Due afghani con la famiglia a Settime

Wahid ha 24 anni ed è scappato dall'Afghanistan, suo paese natale, per non finire arruolato dai talebani che lo avrebbero impiegato come bomba umana. Una fuga, quella della sua famiglia, costata 30mila dollari. Ora si trova con la moglie ventunenne e due figli piccolissimi a Settime, dove grazie a un progetto di accoglienza possono sperare in un futuro più sereno…

«Non volevo diventare un uomo bomba, per questo sono fuggito». È la storia di un giovane uomo, già padre di due bambini, scappato dall’Afganistan, dalla sua terra. Sono arrivati in Italia da circa tre mesi e ora vivono a Settime, grazie al Progetto Spar “Pais”.  Rispetto alle tre famiglie previste dal progetto, loro sono un extra: sono arrivati in fretta dal centro accoglienza di Foggia. Ci accolgono con un sorriso e, nonostante la difficoltà linguistica hanno voglia di raccontarsi.
Wahid, 24 anni, è figlio di orafi, vuole imparare l’italiano, utilizza foglio e penna per indicare luoghi e illustrare situazioni; la moglie, giovanissima, ventunenne, si chiama Moghadessa: in braccio tiene l’ultimo arrivato di 7 mesi, Amir Hussein, mentre Rhogia, la bambina di tre anni e mezzo, sta disegnando su fogli sparsi in tutta la casa.

Afghanistan- Olanda-Italia: un viaggio della speranza di sola andata che la famiglia, originaria di Kandahar, ha deciso di fare in cerca di una vita libera dalla guerra e dal pericolo di morire trasformandosi in mine uomo. «Non volevo indossare il “gilet”: i talebani arruolano Sciti e Sunniti come “bombe”, sono scappato con la mia famiglia: abbiamo pagato 30.000 dollari, ci hanno portato fino in Olanda. Siamo stati due anni lì e ora siamo in Italia» questa la sintesi estrema della loro fuga.
Secondo la convenzione di Dublino (97/C 254/01- 15 giugno 1990) sono stati rimandati in Italia per l’esame della loro domanda di asilo. Non c’è bisogno di fare domande, loro, in un modo o nell’altro, si aprono e raccontano di appartenere all’etnia tagiki, una delle otto varietà di popolo afgano. Sono musulmani Sciti, una minoranza (il 4%) rispetto alla popolazione (il 96% è sunnita).

E se da una parte la nostalgia dell’Afghanistan bussa alla porta, dall’altra ci fanno intendere un’immensa gioia di essere qui, di potersi salvare da una città difficile, da una situazione di tensione e di paura. Moghadessa non parla italiano, ma pronuncia qualche parola in inglese. Alla domanda se le manca Kandahar, Moghadessa con occhi vispi dice: «Yes, it’s my country». Certo, è la sua terra, ma è contenta perché, racconta,  suo marito si è salvato dall’arruolamento contro volontà e i suoi bambini potranno crescere in un Paese in pace. Fa intendere che qui si sente libera, che la vita è diversa da Kandahar: là le donne giovani non posso uscire per andare al supermercato (ci vanno quelle più anziane), le usanze sono diverse, anche nella vita di casa. Ci spiegano che, per esempio, gli uomini vanno a lavarsi al bagno pubblico, al grande bazar della città, dove l’acqua è calda, mentre le donne non possono, devono lavarsi a casa riscaldando l’acqua sui fornelli. E mentre parliamo, Rhogia disegna, gioca e ride, nei suoi occhi c’è la serenità di tutta la famiglia, al sicuro a Settime.

Tra di loro parlano il “dari” (una forma di persiano). Ci raccontano che pregano tre volte al giorno, marito e moglie assieme: mimano il rituale spiegandoci che s’inginocchiano e che, a differenza dei Sunniti che usano solo il corano, loro hanno anche una pietra sacra, che arriva dall’Iran. Poi, con un sorriso, sembrano intendere come possa, una pietrina, fare la differenza tra due ideologie. Tranquilli sul fatto che anche i figli possono, in Italia, mantenere viva la fede sciita, descrivono quanto sia dura vivere a Kandahar per i giovani è difficile lavorare. Moghadessa ha contatti con la sorella in Olanda e ha fatto amicizia con la vicina, la signora somala al piano di sopra (inseriti nel progetto Pais); con il biberon in mano per il piccolo Amir, confessa di essere felice ora, di averlo partorito in casa in Olanda e di aver avuto problemi di salute dopo: «E’ salva- spiega con gesti emblematici Wahid-  grazie ai medici italiani».

Roberta Arias

Condividi:

Facebook
Twitter
WhatsApp

Le principali notizie di Asti e provincia direttamente su WhatsApp. Iscriviti al canale gratuito de La Nuova Provincia cliccando sul seguente link

Scopri inoltre:

Edizione digitale