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Città, arte e cultura
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Città, arte e cultura

Passepartout 2014: martedì 10 giugno incontro con il critico d’arte Francesco Bonami, con l’arte contemporanea al centro della sua esposizione; giovedì 12 giugno forum sull’intervento dello

Passepartout 2014: martedì 10 giugno incontro con il critico d’arte Francesco Bonami, con l’arte contemporanea al centro della sua esposizione; giovedì 12 giugno forum sull’intervento dello stesso Bonami organizzato da ATNews, al quale sono stato invitato a partecipare.

Parlare di arte contemporanea tout court per me non è propriamente come giocare in casa: però mi interessano molto le dinamiche che si creano quando opere d’arte contemporanea escono dai musei per introdursi in un ambito urbano, un habitat che mi è decisamente più congeniale. Cosa accade? Inevitabilmente le opere diventano oggetto di interesse e di discussione da parte dei cittadini. Credo però che sia giusto così: nel pensiero nordeuropeo (diciamo anglosassone) lo spazio pubblico proprio perché pubblico è considerato “di tutti”, e tutti i cittadini sentono il diritto/dovere di partecipare ai dibattiti che lo riguardano; solo da noi in Italia spazio pubblico vuol dire “di nessuno”, ma questo deriva da una nostra particolare interpretazione (neolitica) del concetto di BENE COMUNE.

Esposte in città le opere necessariamente coinvolgono chi guarda che, volente o nolente, si trova nella condizione di dover interagire con esse. E, come accade per le altre arti, dalla musica al cinema al teatro, i giudizi del pubblico e della critica raramente sono concordi.

In occasione degli incontri di A.S.T.I. FEST off organizzati dall’Ordine degli Architetti nel marzo scorso, incentrati sul tema della RIGENERAZIONE URBANA, abbiamo avuto modo di confrontarci con due realtà urbane molto diverse tra loro che hanno scelto la CULTURA come motore della propria rinascita: Lucca e Torino.
Nella serata dedicata a Torino, nel corso del racconto di come la stessa abbia saputo trasformarsi da città dell’automobile (industriale, fordista) in città della cultura, Valentino Castellani e Fiorenzo Alfieri si sono soffermati a lungo sulla scelta strategica di trasformare Torino (anche) in una delle capitali europee dell’arte contemporanea. E, nonostante il periodo di grande crisi del sistema Europa di questi ultimi anni, è innegabile che l’obiettivo sia stato in gran parte raggiunto.

Questo è accaduto certamente grazie alla creazione di un substrato fertile costituito da realtà pubbliche e private, fondazioni e collezioni, gallerie, musei, manifestazioni ed eventi a carattere nazionale ed internazionale. A mio avviso, però, il successo dell’operazione è dovuto anche al superamento di un concetto di CULTURA limitato ai suoi, seppur importanti, obiettivi primari: educazione dei cittadini, conservazione del patrimonio del passato, incremento dello stesso patrimonio con espressioni contemporanee.
Per Torino la CULTURA è stata anche un modo per PRODURRE RICCHEZZA (sulla scia dell’esperienza di altre grandi città europee: Barcellona, Bilbao, Glasgow e Manchester su tutte), ma soprattutto per ELABORARE UN LINGUAGGIO atto a comunicare il valore di un territorio allo scopo di promuoverlo.

Dopo una prima fase nella quale i Piani Strategici di Torino sono stati finalizzati ad un miglioramento della qualità della vita dei cittadini, il focus della fase seguente è stato quello di collocare la città sulla carta geografica del mondo. Nuovamente.
Come detto, l’arte contemporanea è stato uno degli asset sui quali si è puntato, e quello di collocare opere nel contesto urbano è stata una delle strategie attuate. Con risultati più o meno positivi dovuti, credo, ad una migliore o peggiore COMUNICAZIONE dell’operazione stessa. O meglio, delle OPERE stesse. Sto parlando delle LUCI D’ARTISTA e delle OPERE SUL PASSANTE FERROVIARIO.

Le prime credo rappresentino la confutazione dell’assioma per cui le opere di arte contemporanea per essere apprezzate dal grande pubblico debbono essere “facili”: molte installazioni delle Luci d’Artista, nella prima edizione, non erano affatto banali, alcune anzi erano di difficile interpretazione. Però avevano quasi tutte un carattere di forte socialità, richiamavano la partecipazione dello spettatore: forse gli artisti si “attrezzarono” per incontrare il grande pubblico (o fu chiesto loro di farlo), e risultava evidente la volontà di creare ponti piuttosto che muri. Le Luci d’Artista furono da subito fatte proprie dalla città: diventarono immediatamente nuovo paesaggio di Torino.

Viceversa l’operazione sul passante ferroviario a mio avviso non si giovò di una buona comunicazione: né delle finalità della stessa, né del significato delle singole opere. Il risultato fu la non accettazione delle opere da parte della cittadinanza, con sfumature più o meno marcate a seconda del singolo intervento.

L’albero-giardino di PENONE tutto sommato non incontrò molte resistenze: il nuovo spazio pubblico fu quasi da subito utilizzato, magari giovandosi del fatto che la natura, in un contesto fortemente urbanizzato, possiede un suo valore intrinseco indipendente dall’opera d’arte.
L’igloo-fontana di MERZ, invece, suscitò da subito pareri molto discordanti tra loro, e mi pare di ricordare che non fu da subito pienamente apprezzato ed accettato dalla comunità. Credo però abbia subito una sorta di “accettazione di ritorno”: fu talmente fotografato ed utilizzato in brochure, depliant turistici, siti web e riviste, che i cittadini si sono dapprima abituati alla sola immagine dell’igloo, e solo successivamente hanno iniziato a considerare anche l’opera reale quale parte della città.
L'Opera per Torino di KIRKEBY, infine, ebbe la sorte peggiore: quella che in città venne ribattezzata “Ombra metafisica” non piacque da subito, e credo che non piaccia molto neppure oggi. In effetti il valore estetico della realizzazione è assolutamente opinabile, però il tentativo dell’artista di dialogo con il contesto non venne per nulla spiegato alla città, né dall'artista stesso, né tantomeno dall'Amministrazione: con giochi di pieni e vuoti, luci ed ombre, nonché l’utilizzo del mattone a vista, Kirkeby ha tentato una personalissima rilettura dei palazzi barocchi e delle caserme con facciate in mattoni tipiche di Torino. Ma senza qualche informazione in merito, cosa differenzia quest’opera concettuale da una banale fila di travi-pilastri buttati in mezzo ad una rotonda trafficata? Più in generale, credo però che questa sia la croce/delizia di tutta l’arte contemporanea.

Sono convinto che inserire un’opera d’arte in un contesto urbano non equivale a privarla dello status di opera d’arte: però come tale dev’essere illustrata e spiegata al pubblico, proprio come tutte le sue colleghe rimaste nella comfort zone di una collezione o di un museo.
Prova ne è il fatto che le successive opere realizzate per Torino, le colonne di POMODORO e le sculture di TONY CRAGG davanti allo Stadio Olimpico, siano state accettate di buon grado dalla città, forse perché più abituata a tale “invasione di campo”, in qualche modo più “educata” ai pensieri, ai percorsi e ai discorsi dell’arte contemporanea.

Credo che uno dei pochi effetti positivi della crisi globale alla quale stiamo assistendo sia un piccolo-grande cambiamento del clima sociale: mi pare che stia nascendo e si sia diffondendo una nuova sensibilità, soprattutto nei confronti di certe tematiche che riguardano la CULTURA DEL BENE COMUNE.
Fenomeni di co-housing, co-working, sviluppo dell’associazionismo, nascita di forum e comitati spontanei denunciano una rinata volontà di condivisione, di partecipazione da parte di strati sempre più larghi di popolazione su tematiche che direttamente incidono sulle loro vite: sono persone che non accettano più di buon grado che decisioni riguardanti il territorio e la città vengano prese da altri senza un consulto, che vengano calate dall’alto. I cittadini vogliono entrare in qualche modo nei meccanismi decisionali, vogliono essere consultati, pretendono giustamente di far sentire la propria voce, sia che si parli di grandi interventi infrastrutturali (ferrovie, autostrade, dighe…), sia che si tratti della realizzazione di un nuovo parcheggio (o di un fabbricato) al posto di una porzione di parco urbano, sia che si decida l’opera d’arte da posizionare in una fontana o in mezzo ad una rotonda.

Marco Pesce

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