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Attualità

Asti, il racconto di un guarito dal Covid: «Questa malattia è un giro all’inferno»

La testimonianza cruda e drammatica di una guardia giurata che ha passato 14 giorni ricoverato in un reparto Covid dell’ospedale di Asti

Ha perso 12 chili in due settimane

Ha perso 12 chili in due settimane, il respiro è ancora pesante ma, soprattutto, sente ancora addosso la paura. Quella di non farcela, quella che ti prende quando il medico ti dice che il tampone è positivo, che sei un ennesimo paziente Covid 19.

A raccontare la sua terribile avventura con la pandemia è Paolo Lovisone, guardia giurata che si divideva fra i turni di vigilanza al Pronto Soccorso e quelli all’ingresso del Tribunale di Asti.

E’ uno degli oltre 300 positivi della città di Asti ritornato da poco a casa dopo 14 giorni di ricovero in uno dei reparti Covid dell’ospedale. Nella foto di copertina il confronto di come era appena 20 giorni fa e di come è ora.

Lavorava in ospedale e in tribunale

Impossibile individuare il luogo e la data in cui è stato contagiato.

«Io ho alternato turni in ospedale a quelli in tribunale fino agli inizi di marzo – racconta lui stesso – poi sono andato con mia moglie a fare una crociera programmata da tempo, nelle Antille Olandesi, dove nessuno ci ha controllato perché non era ancora scoppiata la pandemia».

I primi sintomi sono subentrati pochi giorni dopo il suo rientro ad Asti.

I sintomi

«Avevo la febbre alta con tosse, dolori alla schiena, inappetenza, forte stanchezza. Prendevo la Tachipirina, la febbre scendeva un po’ per due ore e poi risaliva. Dopo una giornata terribile in cui stavo proprio male e avevo male a respirare, il mio medico curante mi ha inviato al Pronto Soccorso e lì mi hanno subito ricoverato e messo sotto ossigeno».

Una maschera, quella per respirare meglio, che Lovisone ha tenuto per giorni 24 ore su 24. «Me la toglievo solo per andare in bagno e per mangiare, ma senza l’aiuto della mascherina erano diventati impossibili anche quei pochi metri che dividevano il letto al bagno».

Lovisone con la mascherina durante il ricovero

L’ossessione del proprio respiro

La prima settimana è stata quella più brutta.

«E’ una malattia maledetta che ti toglie tutte le forze. Il tuo unico pensiero è sapere se riuscirai ancora a respirare. Tutti i tuoi sforzi vanno sul respiro e lo ascolti continuamente, per capire se migliora, se peggiora, se riesci ad allargare un po’ di più i polmoni, quanto ti fa male espanderli. La gente fuori non può capire cosa significhi essere ossessionati dal proprio respiro che diventa tutta la tua vita, con la paura addosso di non farcela e di intercettare segni di peggioramento».

Già, la paura. Quella che non ha risparmiato neppure un uomo come lui abituato al coraggio, non fosse altro che per il lavoro che fa.

La notte con la luce accesa per paura di svegliarsi con il buio e pensare di non avercela fatta

«Non mi vergogno a dirlo, ma per molti giorni  di notte non ho mai spento la luce sopra il letto. Perché? Perché avevo il terrore del buio, come un bambino. Paura di addormentarmi e di risvegliarmi al buio pensando di non avercela fatta». Notti passate in bianco con la paura che il respiro peggiorasse, soprattutto quando sentiva accorrere i medici in qualche camera dove altri pazienti stavano mollando. Notti passate da sveglio per paura di sentirsi male, di non avere la forza di chiamare i medici e di non avere nessuno che possa dare l’allarme.

La solitudine era un po’ alleviata dalla tecnologia del cellulare, ma le forze erano poche anche per mandare messaggi e fare telefonate.

«Ti toglie tutte le forze»

«E’ una sensazione terribile quella di non avere alcuna forza per combattere la malattia. Senti di essere totalmente in sua balia e speri solo che i farmaci che ti danno possano aiutarti a superare il periodo più critico. Tu, di tuo, non ce la fai».

Se qualcuno non avesse ancora capito la gravità di questa malattia, Lovisone spiega che quando sei in un reparto Covid è il modo in cui si presentano infermieri e medici a spiegartela più di tante parole.

Medici e infermieri ci tenevano su con le scritte a pennarello sulle tute

«Arrivavano “bardati” con tute, calzari, maschere, visiere, caschi – ricorda – Vedevi a malapena gli occhi ma bastava per capire dagli sguardi se erano preoccupati per le tue condizioni oppure no. E se si accorgevano che eri spaventato riuscivano a trasmetterti serenità. Sui loro camici avevano le scritte più strane per farci coraggio “Guarirete presto, siete i nostri eroi”, oppure “Andrà tutto bene”, “Vi vogliamo bene”, “Ciao, io sono l’infermiera Elena” e tutti avevano il loro nome scritto a pennarello sulle tute. Per  far entrare un po’ di umanità in una situazione drammatica. Sono davvero degli eroi. Non ci si rende conto da fuori, ma quelle persone ogni istante della loro vita da settimane rischiano il contagio conoscendo da vicino i danni che provoca. Ci vuole coraggio per presentarsi ad ogni turno e affrontare tutto questo ad un ritmo forsennato».

I più disorientati sono gli anziani. Un po’ per le loro condizioni di salute, un po’ per la poca dimestichezza con cellulari e telefonini, sono quelli che pagano di più l’isolamento dei ricoverati.

Dopo giorni di dolorosissimi prelievi di sangue al polso e dopo l’ultima visita, la buona notizia: Lovisone è ancora positivo ma le sue condizioni gli consentono di poter proseguire le cure a casa.

Le dimissioni fra gli applausi di medici e infermieri

«In quel giorno siamo stati dimessi in due e ce ne siamo andati dal reparto accompagnati dagli applausi di medici ed infermieri. Un momento indimenticabile. Poi mi sono ritrovato, solo, nell’ospedale. Quell’ospedale sul quale ho vigilato per tanti turni, mai fermo, mai completamente a riposo. Ora è spettrale, irriconoscibile, totalmente vuoto. Quando ho rivisto la luce del sole mi sono sentito un sopravvissuto. Come i soldati che tornavano dalla guerra. Stessa sensazione».

Lovisone sul balcone di casa dopo le dimissioni

La sua vita da recluso in casa

Il ritorno a casa è altrettanto vigilato per non mettere a repentaglio la salute della famiglia, compreso il padre Beppe, storico ex gestore del bar Cocchi.

«State a casa, non sapete cosa rischiate»

«Vivo recluso nella mia camera con annesso bagno mentre il resto della famiglia vive al piano di sotto. Indosso guanti e mascherine, non utilizziamo nulla in comune, cucino presto al mattino prima che si alzino loro e poi disinfetto tutto con l’Amuchina. Non sono ancora fuori del tutto, ma il peggio è passato e non posso credere che tanta gente abbia voglia di fare “la furba” per aggirare le norme di isolamento. State a casa, per l’amor del cielo, state a casa perché questa malattia è come un giro all’inferno».

 

 

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