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Testimonianze

Asti, la vita di Gianni e Roberto “prima e dopo” l’infortunio

Roberto è astigiano, presidente dell’Anmil Piemonte e insieme a Gianni sono testimoni nelle scuole, sui posti di lavoro, alle riunioni con gli imprenditori

Sono i giorni dedicati alla sicurezza sul lavoro. Purtroppo segnati da uno stillicidio di notizie di cronaca di morti e infortuni gravi. I dati forniti da Anmil di Asti sull’ultimo anno parlano di un lieve calo ma non è abbastanza per tendere allo zero. Sempre l’associazione mutilati ed invalidi del lavoro prosegue nella sua opera di sensibilizzazione con i progetti di testimonianza nelle scuole e sui posti di lavoro. Invalidi che raccontano la loro storia personale. Per loro è un continuo rivivere quei momenti di dolore (fisico ed emotivo) ma sono determinati e consapevoli del fatto che le testimonianze sia un efficace strumento per seminare la cultura della sicurezza sul lavoro. Di seguito due storie. Una  è quella di Roberto Sardo, oggi presidente Anmil del Piemonte e a lungo presidente della sezione di Asti.

Gianni: «Ho pensato di farla finita. Non l’ho fatto e oggi mi spendo per i miei colleghi di lavoro affinchè adottino tutti i sistemi di sicurezza»

«Mi chiamo Gianni M., ho 53 anni e oggi voglio raccontarvi la storia delle mie due vite: quella precedente all’infortunio, e quella dopo.
Prima dell’incidente ero una persona estremamente attiva. Facevo sport tutti i giorni: tennis, calcio, nuoto, corsa. Lavoravo come cuoco, un lavoro che amavo, frenetico e intenso, come me. E poi le serate: discoteche, locali, amici, notti tirate fino all’alba. Mi sembrava di avere il pieno controllo della mia vita.
Poi, un mattino, tutto è cambiato.
Ero in ritardo per andare al lavoro e guidavo veloce, troppo veloce. Manca poco all’arrivo, quando perdo il controllo dell’auto. Finisco fuori strada e mi schianto violentemente contro un muro. Rimango intrappolato nell’abitacolo. E lì, in quel momento, senza saperlo, la mia prima vita finisce.
Vengo trasportato in ospedale in coma. Le lesioni sono gravissime: ossa rotte, milza schiacciata, altri danni minori. Mi trasferiscono d’urgenza al CTO di Torino. Operazione d’emergenza, ore interminabili sotto i ferri. Rianimazione. Terapia intensiva. Oltre due mesi tra tubi, aghi, silenzi e paura. Quando finalmente arrivo in reparto, penso di essere fuori pericolo. Penso: “Ora guarirò”. E invece no. Mi dicono che forse non camminerò mai più.
Quel giorno il mondo si spegne. Lo sconforto è totale. Ho pensato anche di farla finita, buttarmi da quella finestra dell’undicesimo piano. Ma non l’ho fatto. E non grazie a me.
Mi hanno salvato i miei familiari, la mia forza di volontà che pian piano è riemersa, e quei medici e fisioterapisti che non hanno mai smesso di crederci. Ho affrontato altri interventi, mesi e mesi di riabilitazione.
E alla fine, lentamente, ho ricominciato a camminare. Ma non ero più lo stesso. Restare in piedi a lungo mi era impossibile. Dovevo reinventarmi. Così, con l’aiuto di un mio amico, abbiamo preso in gestione un bar con ristorante. Funzionava, ci davamo il cambio, trovavamo un equilibrio. Ma anche questa seconda occasione è durata poco: il mio socio si sposata e si è trasferisce. Di nuovo, dovevo ripartire.
È grazie alla legge 68/1999, che promuove l’inserimento e l’integrazione delle persone disabili attraverso il sostegno e il collegamento obbligatorio, che sono riuscito a trovare un nuovo impiego presso l’Azienda che si occupa della raccolta rifiuti nel mio paese.
All’inizio è stata dura. Mi sentivo fuori posto, demotivato. Un lavoro onesto, certo, ma distante anni luce dal me di prima. Eppure, proprio lì, ho iniziato a trovare un senso nuovo a tutto quello che mi era successo.
Notavo i comportamenti pericolosi dei colleghi, la fretta, la disattenzione, l’uso scorretto dei mezzi. Così ho iniziato a raccontare la mia storia. E loro… mi ascoltavano perché parlavo con cognizione di causa, perché io, quel dolore, l’avevo vissuto davvero. È stato allora che ho scoperto la mia seconda vocazione: la sicurezza sul lavoro. Sono stato eletto RLS (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) e da allora mi batto per far rispettare le regole, per promuovere la cultura della prevenzione.
Non è facile. In Italia, la sicurezza viene spesso dopo il profitto. Ma io non mollo.
Da alcuni anni, con l’ANMIL a cui mi sono iscritto una decina di anni fa dopo il terribile infortunio in itinere, vado nelle scuole, nelle aziende, tra i giovani e i lavoratori. Racconto quello che mi è successo. Non per fare paura, ma per far riflettere, perché sono convinto dell’effetto della testimonianza diretta.
La mia vita oggi non è quella di prima, ma ha un senso profondo.
Concludo con le stesse parole che uso alla fine dei miei incontri: “Mai avere fretta. Mai abbassare la guardia. La sicurezza non è un ostacolo, è un diritto. Non dite mai: ‘Tanto a me non succede’ perché a me è successo, e in un attimo, può succedere anche a voi».

Roberto: «So cosa significa perdere tutto in un attimo»

Mi chiamo Roberto Sardo. Sono un invalido del lavoro.
Ma, prima di tutto… sono un uomo che ha avuto la possibilità, e il dovere,  di trasformare una tragedia in una testimonianza.

Oggi ricopro il ruolo di Consigliere Nazionale e Presidente Regionale ANMIL per il Piemonte, e grazie all’Associazione ho l’onore di portare la mia storia nelle scuole, nelle aziende, tra i giovani e i lavoratori.

Perché sono qui? Perché so cosa significa perdere tutto in un attimo.
E voglio che nessuno debba più vivere quello che ho vissuto io.

Era l’11 novembre 1978, una data che ha segnato per sempre la mia vita.

Avevo 15 anni. Avevo due grandi passioni: la meccanica e le corse automobilistiche.

Sono cresciuto tra pistoni e motori, dentro le officine, nei box delle gare di kart, tra i rombi delle auto sportive, sempre accanto a mio padre,  meccanico e preparatore.

Avevamo un sogno condiviso, aprire un’officina tutta nostra.

Così, finita la terza media, senza alcuna esitazione, firmai un contratto di apprendistato e iniziai a lavorare proprio nell’officina dove mio padre era capo officina.

Quella mattina, l’11 novembre,  il destino aveva già deciso per me.

Non dovevo essere lì. Non dovevo trovarmi con la testa incastrata tra la ruota e il parafango di un furgone, senza occhiali protettivi , non c’era spazio, non c’era tempo, il cliente aveva fretta.

Chi doveva finire quel lavoro non si presentò, non era la prima volta, e mio padre, come spesso accadeva, cercò una soluzione. Mi disse: “Sospendi quel motore e vai a finire il furgone, ci vuole poco.”

Quel “poco”… è durato tutta la vita.

Il bullone non si svitava, era arrugginito, presi il martello, uno scalpello e iniziai a colpire.

Uno. Due. Tre colpi. Poi un lampo, una fitta, un fastidio indescrivibile.

Non era dolore, era qualcosa di diverso.

L’occhio non si apriva, corsi negli spogliatoi, mi gettai acqua in faccia, mi guardai allo specchio e vidi sangue, tanto sangue.

Mio padre mi portò immediatamente al Pronto Soccorso dove i medici capirono subito la gravità.

La scheggia era entrata nell’angolo vicino al naso e attraversando tutto l’occhio aveva danneggiato il cristallino, aveva reciso la retina e provocato fuori uscita ,dal bulbo, di liquido oculare.

“È grave  – dissero i medici  – Un caso su un milione.”

Mi trasferirono all’Ospedale Oftalmico di Torino dove tentarono di salvarmi l’occhio, “per il momento possiamo solo cercare di ricostruire la retina e sperare” dissero.
Passarono giorni, settimane, mesi.

Ogni mattina mi svegliavo con la speranza di vedere anche solo un filo di luce, ma nulla.
Solo buio.

Alla fine, la retina non tenne, e considerata anche la fuori uscita di liquido oculare e il pericolo elevato di infezioni, l’unica soluzione fu l’asportazione dell’occhio.

Avevo 15 anni.
E tutto  svanì, il mondo mi crollò addosso: le corse, l’officina con mio padre, i miei sogni.

Mi sentivo inutile, evitavo i miei coetanei, avevo paura del giudizio degli altri, avevo la sensazione che tutti mi guardassero e mi giudicassero per quella mia menomazione.
Le ragazze? Le evitavo.
Ero perso.

E la cosa peggiore era che non solo avevo perso i sogni che condividevo con mio padre, ma non avevo né la voglia e neppure la forza per creare altri sogni, ed è difficile vivere senza sogni.

Molti mi dicevano: “Su forza, non abbatterti, in fondo hai ancora un occhio buono.”

Ma chi subisce un infortunio non si misura con la cartella clinica.
Si misura col dolore silenzioso che porti dentro, con la paura, con il sentirsi diversi, rotti.

E non sei solo tu a soffrire, soffre tutta la famiglia.

Mio padre, conoscendolo, immagino che si sia sentito responsabile, non riesco nemmeno ad immaginare  il senso di colpa devastante che si  è  portato dentro in tutti i restanti anni, fino alla sua morte; io non l’ho mai rimproverato, non gli ho mai chiesto nulla, lui non ne ha mai parlato, solo, anche a distanza di anni, ricordava l’urlo di mia madre, quando le raccontò cosa mi era successo e la portò da me in ospedale.

Nel 1979, su consiglio di mio zio, anche lui invalido del lavoro, con lo stesso infortunio, nella stessa officina, mi iscrissi all’ANMIL.

Fu la mia ancora, prima l’aiuto della famiglia, poi il condividere la tua “disgrazia” con gli altri invalidi che facevano parte dell’associazione e che avevano vissuto più o meno le stesse situazioni, mi aiutò a reagire e cercare di andare avanti.

Nel 1981, grazie all’Associazione, partecipai a un concorso pubblico all’INPS dove iniziai un nuovo percorso lavorativo terminato con il pensionamento nel giugno 2021.

Nel frattempo, la vita è ripartita.

Mi sono sposato, ho costruito una famiglia meravigliosa.
Non ho mai smesso di impegnarmi in Anmil, da sempre ricopro incarichi regionali e nazionali all’interno dell’Associazione, ma soprattutto, ho trovato un nuovo scopo: raccontare, testimoniare, sensibilizzare.

Ecco perché vado nelle scuole, nelle aziende.
Perché so cosa può accadere quando si abbassa la guardia.

Basta un attimo.
Un attimo di fretta, un gesto impulsivo, una disattenzione, un eccesso di sicurezza.
Un “lo faccio in un secondo”.

E tutto cambia.

La sicurezza sul lavoro non è una formalità.
È rispetto per la propria vita.
È rispetto per i colleghi.
È rispetto per le famiglie che ci aspettano a casa.

Da oggi, se anche una sola persona, ascoltando la mia storia, eviterà un gesto avventato, o pretenderà condizioni di lavoro più sicure, allora tutto questo dolore  sarà servito a qualcosa.

Perché la mia storia non è solo mia, è di tanti, troppi, e raccontarla è il mio modo per fare in modo che tutto ciò non si ripeta mai più.

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