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Intervista

Don Gallo: “Per affrontare la crisi della Chiesa serve creatività”

Lo storico parroco di S. Secondo, 78 anni, ha lasciato l’incarico che condivideva con S. Silvestro e S. Maria Nuova. Sarà penitenziere diocesano

«Di origini contadine, aspiravo a diventare parroco di campagna. Invece sono sempre rimasto in città. E devo dire che è stato positivo, perché ho potuto portare la peculiarità della mia cultura in un contesto diverso».
A parlare è don Giuseppe Gallo, 78 anni, che domenica scorsa ha lasciato la guida della parrocchia di San Secondo-San Silvestro-Santa Maria Nuova per sopraggiunti limiti di età. Al suo posto ha fatto ingresso il nuovo parroco, don Andrea Martinetto, proveniente da Portacomaro.
Don Gallo sarà penitenziere diocesano, assicurando comunque la disponibilità a collaborare con la parrocchia. Lo abbiamo intervistato per parlare dei lunghi anni trascorsi da parroco e delle sfide che attendono la Chiesa oggi.
A che età è entrato in seminario e in quali parrocchia è stato impegnato?
Sono entrato in seminario nell’ottobre 1955. Sono stato ordinato sacerdote nel 1969 e poi sono sempre stato impegnato in parrocchie cittadine: prima 13 anni al Duomo, vice parroco con don Matteo Scapino; poi 20 anni da parroco a San Silvestro, quindi dal 2003 a capo della parrocchia accorpata di San Silvestro, San Secondo e Santa Maria Nuova.
Inoltre dal 1976 al 2006 sono stato direttore della Caritas diocesana. Come si nota non ho mai vissuto molti avvicendamenti, aspetto atipico oggigiorno. Anche se ritengo che i cambiamenti non facciano male né al sacerdote né alle comunità coinvolte se decisi sulla base di una logica.
Si è ispirato alla figura di qualche santo o religioso per il suo cammino sacerdotale?
Sì, ho avuto diversi punti di riferimento. Mi riferisco a don Arturo Paoli e il religioso Carlo Carretto, entrambi appartenenti alla congregazione dei Piccoli Fratelli del Vangelo. Quindi al cardinal Carlo Maria Martini, persona unica al mondo che, essendo uomo della Parola di Dio, ascoltava anche le parole degli uomini. Infine a don Lorenzo Milani, fondatore della scuola popolare di Barbiana negli anni Sessanta, di cui apprezzo la capacità di immersione nella realtà, tanto che nel 1948 aveva già intuito dove stava andando la Chiesa, compresa la crisi vocazionale. E di cui ammiro la dedizione ai giovani – che aiutava ad essere liberi, responsabili e sovrani – e la sua obbedienza mai servile: era servo di Dio e di nessun altro, per cui si poneva nel modo migliore al servizio degli uomini.
Lei è sacerdote dal 1969, un lungo periodo in cui si sono avvicendati cinque Pontefici. Con quale di loro si è sentito maggiormente in sintonia?
Premesso che il Novecento ha avuto Pontefici rilevanti e incisivi, ritengo Paolo VI il più grande Papa del secolo scorso, come affermano anche gli storici, in quanto ha avuto il coraggio di attuare il Concilio Vaticano II. E, ovviamente, ho apprezzato particolarmente la figura di Giovanni XXIII, che aveva avuto la forza di indire il Concilio nel contesto di una Chiesa stanca e standardizzata.

Gli anni da sacerdote

Qual è stato il suo periodo più soddisfacente da sacerdote?
Sicuramente gli anni da vice parroco al Duomo.
Erano gli anni della spinta del dopo Concilio e dei valori positivi proposti dal Sessantotto. Anni di entusiasmo, in cui la gente non aveva “le ali basse” come adesso. Impegnativi, ma facili. Le comunità parrocchiali avevano riscoperto sé stesse con la vivacità dei neofiti. Si respirava grande interesse per la Parola di Dio, la liturgia era partecipata dal popolo e c’era una grande apertura al mondo e ai problemi sociali.
Quali le principali cause della crisi attuale – tra calo vocazionale e scarsa partecipazione dei fedeli alla vita liturgica – secondo lei?
A determinare l’involuzione, alla fine degli anni Ottanta, il timore, da parte della maggioranza del clero, verso le novità introdotte dal Concilio Vaticano II e la paura che i laici potessero prendere il sopravvento. Quindi l’affievolirsi della spiritualità, di pari passo con la crisi politica esplosa in Italia all’inizio degli anni Novanta.
Come è cambiata la figura del sacerdote in tutti questi anni?
Chi si è orientato con entusiasmo verso la logica del Concilio Vaticano – non è stata la maggioranza – ha sconfitto il clericalismo e si è sentito parte attiva e responsabile della comunità.
Chi non l’ha fatto ha continuato come si faceva in passato, contribuendo in questo modo anche alla crisi vocazionale. Non si può proporre lo stesso modello di sacerdote di 50 anni fa.

Le difficoltà della Chiesa

Come vede il futuro degli oratori?
Incastonato nella vita della Chiesa. Penso che gli oratori siano necessari, ma bisogna tener conto che il giovane non rappresenta una realtà singola, ma è membro di una famiglia, di una comunità e di una società.
Se l’oratorio diventa solo luogo di accoglienza e non propone un progetto di attenzione e crescita nei confronti dei genitori, allora non è adeguato. Lo stesso discorso vale per i sacramenti, che sono tutti in crisi. Dando per scontato che le famiglie siano cristiane, continuiamo ad agire solo sui ragazzi, lamentando poi gli insuccessi.
Che fare, allora?
Bisogna cercare di cambiare attraverso la creatività, suggerita dallo Spirito Santo, basata sulla constatazione della realtà. Ad esempio, oggigiorno i grandi assenti della vita liturgica sono gli adulti tra i 30 e i 50 anni, in particolare le donne che in passato erano la maggioranza. Detto questo, dai fenomeni sociologici bisogna farsi interpellare, dialogando con gli interessati. Ci sarà un motivo per cui quella fascia di età non frequenta più le parrocchie. L’indifferenza di cui si parla è un giudizio, non un motivo, che invece potrebbe dipendere dal fatto che per troppo tempo ci si è basati su modelli non più attuali.
Ma attenzione. Non bisogna commettere il grave errore di edulcorare la Parola di Dio e i suoi insegnamenti solo per paura di perdere ulteriori fedeli. Come quando si consente agli animatori di una parrocchia di non prendere parte alla messa domenicale.
Ritengo, infatti, che ci sarebbero persone interessate al Vangelo se venisse loro presentato in modo vero e con testimonianze di vita, offrendo occasioni di formazione, anche spirituale. Il tutto nello stile di Cristo, che cercava seguaci e non proseliti.
Cosa pensa dei giovani di oggi?
Ritengo siano i figli delle famiglie di oggi, che chiedono i sacramenti ma non li vivono, e di una società che non li ama, ma li blandisce. Non sono attrezzati per poter capire il mondo in cui vivono e reagire secondo una logica rispettosa della Costituzione e del Vangelo. Sono anche molto lontani dalla Chiesa, che per aiutarli non dovrebbe presentarsi come un gruppo di amici, ma dovrebbe spronarli a riempire il vuoto interiore che li caratterizza attraverso due strumenti: lo studio e la spiritualità.

Il rapporto con Asti

Passiamo a temi più locali. Cosa apprezza maggiormente della città di Asti?
Asti mi piace perché è antica, ha un impianto medioevale e una tradizione storica e artistica.
Cosa le piace di meno?
Non mi piace il fatto che gli Astigiani siano autolesionisti e non siano fieri della propria fede e cultura. Altrove, dove questa fierezza si respira, fioriscono iniziative interessanti che aiutano anche il tessuto economico.
Da noi non c’è quasi più imprenditoria. E pensare che attualmente una significativa forma di carità evangelica consiste proprio nel produrre posti di lavoro. L’imprenditore oggi è una persona virtuosa, perché lavora senza sapere cosa capiterà il giorno successivo.
Cosa augura alla città di Asti?
Alla nostra città auguro che sia fedele alle proprie tradizioni e cultura, togliendosi di dosso la dimensione dell’autolesionismo per ritrovare la fierezza.
Auguro anche di scoprire la dimensione di città, dando importanza ai rapporti interpersonali, senza i quali non ci può essere benessere.
La Collegiata è la chiesa in cui viene conservato il drappo del Palio. Lei è appassionato di questo evento?
Non sono una persona che va in tribuna a tifare, ma penso che il Palio sia una manifestazione da mantenere in quanto fa parte della nostra storia e tradizione.
Lei è stato direttore della Caritas per quasi 30 anni. Secondo lei Asti è solidale?
Non seguo la Caritas da tempo, ma ritengo che la solidarietà e l’attenzione verso gli altri sia da rilanciare, dato che questa forma di attenzione si va spegnendo, soprattutto da parte delle famiglie giovani.
Va al contempo ribadito che il compito di rispondere ai bisogni della gente spetta alla politica, che deve debellare la povertà avvalendosi del privato sociale.
Quale ricordo le è più caro di questi anni da parroco?
Devo dire che non sono solito legarmi a momenti specifici e non sono emotivo, per cui non mi sono mai esaltato dei miei successi o depresso per gli insuccessi. Il mio antidoto a questa altalena di emozioni è stato basare la mia vita su Cristo, grazie a cui ho vissuto serenamente gli alti e bassi della mia vita.

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