Il 2020, con l’emergenza sanitaria da Coronavirus che ha costretto le persone a restare in casa e limitare ogni spostamento superfluo, è stato l’anno che ha decretato fino al 30% in più dei fatturati sulle vendite on line. Dai grandi player ai piccoli negozi, l’e-commerce ha rappresentato una risposta per soddisfare le richieste dei clienti, ma fino a che punto buttarsi nel “mare magnum” del commercio elettronico rappresenta una reale opportunità per il negozio di quartiere? Quali sono i rischi che si corrono a scendere “nell’arena dell’e-commerce” senza aver valutato attentamente pro e contro del progetto? L’abbiamo chiesto all’avvocato Francesca Bassa, esperta in consulenza legale sulle nuove tecnologie e di diritto 2.0.
Il commercio, soprattutto se guardiamo ai piccoli negozi di vicinato, sta attraversando una crisi particolarmente forte dovuta da un lato all’emergenza sanitaria, dall’altro alla sempre più incalzante concorrenza dell’e-commerce. C’è quindi una corsa di molti a riposizionarsi sul mercato digitale nel tentativo di trovare un nuovo tipo business; ma la vendita on line è davvero un passaggio che tutti i commercianti devono fare per sopravvivere?
“Fare digitale” impone il “non improvvisarsi”. Ciò significa che chi decide di investire online deve necessariamente predisporre un’analisi di fattibilità. Infatti, essere presenti sul web, in modo efficace, richiede una strategia digitale vincente. Dal mio punto di vista, non tutti i commercianti sono tenuti, per forza, a ricorrere a soluzioni digitali. Occorre, tuttavia, verificare se l’attività che si sta svolgendo sia in primo luogo appetibile online ed in secondo luogo se si abbia la forza di competere con soluzioni sempre in movimento connotate da una forte dinamicità, poiché il web non è statico, ma rappresenta un sistema veloce in continua evoluzione. Occorre dunque predisporre un budget idoneo per stare al passo. Pertanto, un commerciante può iniziare a curare meglio le basi della sua pubblicità online, esempio la propria pagina aziendale Facebook, LinkedIn, Instagram. Difficilmente un piccolo commerciante riuscirà ad essere fin da subito competitivo, salvo che non decida di investire in un “team digitale” il quale si occupi di aspetti come il Customer Care, la manutenzione dei sistemi informatici e delle piattaforme avviando iniziative di marketing mirate.
Esiste una differenza importante tra creare un e-commerce e posizionarsi su un marketplace, come nel caso di Amazon. Cosa bisognerebbe valutare prima di investire denaro e tempo in una di queste due opzioni?
Partiamo col dire che in primis bisogna far chiarezza sulle definizioni. Per ”e-commerce” intendiamo un negozio virtuale per mezzo del quale l’imprenditore vende direttamente ciò che produce. Questo può realizzarsi come piattaforma B2B (Business 2 Business) o B2C (Business 2 Consumer). Entrambi gli aspetti incidono nell’adeguamento normativo sia in termini di privacy che in termini legali e contrattuali. Per “marketplace” intendiamo definire quei siti che si occupano di intermediazione per la vendita di servizi o beni. Il negozio online non sarà pertanto di proprietà dell’imprenditore, ma semplicemente uno spazio di vendita. Tra i più grandi marketplace, ad esempio, troviamo Alibaba e Amazon. Non dimentichiamo che ci sono marketplace specifici per settore (merceologico). Quindi, da un punto di vista pratico, quando si crea un e-commerce, questo va costruito da zero, altrimenti è possibile affidarsi a soluzioni pre-confezionate con le quali non sussiste un investimento iniziale di spessore. La differenza tra le due soluzioni e-commerce e marketplace, andrebbe trovata anche nelle norme applicabili, ed in particolare con riferimento al discorso della responsabilità. E’ chiaro, dunque, che prima di creare un proprio e-commerce è opportuno avviare un’attenta analisi di strategia digitale che valuti le potenzialità sia in termini di ricavi sia di rischi legali.
Se si va all’avventura, senza un serio piano di investimenti e relativi ipotetici ricavi, si rischia di creare un e-commerce “zombie”: in che senso?
Come per i siti internet è facile trovarsi su siti e-commerce “abbandonati”. Di solito si tratta di quelli che sono stati creati velocemente, senza business plan ben definiti, e che dietro le quinte non godono di alcuna assistenza tecnica e legale. Una condizione che ci fa intuire che un e-commerce sia affidabile e non diventi “lasciato a se stesso”, risiede nella presenza dei termini legali, delle condizioni di vendita e della privacy. Oltre al costo dell’agenzia di comunicazione, gli imprenditori dovrebbero investire nell’assistenza legale specializzata che, con cadenza annuale almeno, verifichi che il sito resti conforme alla normativa vigente. Ogni attività sul web necessità dunque di manutenzione, richiede di innovarsi a seconda delle tendenze, nonché di stare al passo coi social. Da ultimo, teniamo presente che progettare un e-commerce richiede tempistiche lunghe specie se creato ex novo, oltre alla definizione di un team di lavoro il quale sappia suddividersi i compiti. Insomma, “ci si mette la faccia” e ogni leggerezza può rivoltarsi contro anche in termini reputazionali.
Quanto conta effettuare una consulenza legale prima di portare on line la propria attività e avviare una piattaforma di vendite su internet?
E’ imprescindibile. Se si vuole che la propria attività sia competitiva non si può non richiedere l’assistenza di un legale esperto in materia. Aprire un negozio on line comporta il dover rispettare diversi obblighi anche fiscali e numerosi adempimenti burocratici. Tutto ciò comporta la costruzione di un chiaro progetto di marketing che prima di essere lanciato necessita di un controllo da parte del consulente legale esperto. Per cui è necessario farlo validare da un consulente legale con esperienza in materia, anche se andrebbe strutturato fin dal momento della progettazione rispettando i paletti legali. Il suggerimento è di non lanciare mai alcuna iniziativa digitale di marketing senza aver compiuto le opportune valutazioni in termini legali. Inoltre è fondamentale affidarsi a strumenti tecnologici validi e che diano una certa garanzia. Le piattaforme ex novo andrebbero costruite su modelli di legal design che tutelino anche la protezione dei dati personali.
Quali sono gli errori più diffusi che vede commettere da chi decide di avventurarsi nelle vendite on line credendo che “sia tutto a costo zero, o quasi”?
Ci sono due errori. Il primo è l’improvvisazione, come dicevamo all’inizio. Si crede che un e-commerce possa aumentare subito e in modo considerevole il proprio business. Il secondo è legato alla cultura del digitale. Intendo dire, che oggi esistono soluzioni già confezionate o che aiutano l’imprenditore. Un’iniziativa che viene in mente è quella di recente lanciata da Google, “Italia in digitale” che ha lo scopo di valorizzare le piccole medie imprese sul web e ti spiega come farlo. In particolare, nei territori e quindi nelle Province esiste ancora troppo poco la cultura di “pensare in digitale” e di valorizzare questo terreno per offrire alla propria comunità servizi più efficienti e più veloci. Il digitale sartoriale funziona se è la stessa comunità che lo spinge e se si fa gruppo investendo insieme. Immaginiamo un digitale realizzato su iniziativa di quartieri o di più imprenditori, ma ci vuole comunque sempre un investimento iniziale perché il digitale “costa”.
Quando si parla di e-commerce possiamo identificare, almeno in Italia, diverse limitazioni che lo rendono meno sfruttato che in altri Paesi: limitazioni strutturali, culturali e legali. Quanto incidono queste limitazioni nello sviluppo del commercio on line?
In primo luogo, gli e-commerce funzionano bene se sono di proprietà di società strutturate e il cui prodotto si presta per essere venduto online. Ciò non significa che anche il piccolo – con una efficace strategia – non ci si possa “buttare”. L’attuale “digitale” pensa in modo globalizzato e non si presta alla cosiddetta balcanizzazione, ovvero alla frammentazione. Partendo da questo presupposto, ci sono diversi limitazioni, ad esempio quelle legali come adempimenti burocratici (su tutte la compliance GDPR). Questi non sono solo per il cittadino italiano, ma per tutti quelli europei. Poi esistono limitazioni strutturali: il digitale attuale cade a pennello per le grandi città (pensiamo ai soggetti di Food delivery), un po’ meno si adatta invece ai territori. Incide sia il fatto che i big player “conoscono” poco i territori, sia il fatto che nelle province si è più diffidenti e i tempi restano più dilatati; quindi della serie: è più facile telefonare o recarsi sul luogo che cliccare su un’App. Infine le limitazioni culturali: esiste un “discorso di cultura” perché nei territori le competenze di specializzazione sono meno sviluppate e c’è molto meno brain-storming sull’innovazione e sulla comunicazione digitale tra gli addetti al settore. Spesso, infatti, il digitale è importato da società di consulenza di Milano (la città che senza dubbio ne sa di più sul tema ndr). La cultura potrebbe incentivarsi creando dei poli locali che mirino a rallentare il digital divide che sussiste oggi tra territori e metropoli, facendoci insegnare da chi ne sa di più.
Un piccolo negozio sa che competere con Amazon è impossibile, ma le tipicità italiane, se unite tra loro, potrebbero sviluppare nuovi concept di commercio elettronico. E’ plausibile che sul digitale l’unione faccia la forza laddove, off line, ognuno bada soprattutto al suo orticello?
E’ chiaro: non è possibile competere con i grandi player, pertanto, se si vuole spingere sul digitale al minor costo, al momento è necessario puntare su quello che il mercato già offre, sfruttando i servizi digitali attuali al meglio, affidandoci alle iniziative di chi il digitale sa farlo e lo sta facendo da anni. Torniamo al concetto dell’improvvisazione. Per “fare digitale” occorre prima sviluppare prima delle competenze: se un territorio ne ha poche, è più difficile che possa “modernizzarsi”; per cui unire le forze oggi è sicuramente un tentativo che vale la pena correre. Iniziative di quartiere, se strutturate bene e ben ragionate, possono diventare un nuovo modo di fare commercio in digitale, ma chiaramente tutto va ponderato e pensato prima di essere lanciato. Il digitale è prima di tutto “community” e funziona quando un’azienda ce l’ha già: le iniziative individualiste possono durare a breve termine.
Riccardo Santagati