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Attualità

Il Grande Torino, la tragedia
di Superga e la leggenda

Le grandi leggende, i campioni che non hanno bandiera ma sono animati dalla luce del talento riconosciuto da tifosi di ogni fede, vivono in eterno. Non hanno fine, restano scolpite indelebilmente

Le grandi leggende, i campioni che non hanno bandiera ma sono animati dalla luce del talento riconosciuto da tifosi di ogni fede, vivono in eterno. Non hanno fine, restano scolpite indelebilmente nella mente degli appassionati. Forse proprio per questo, poco più di 65 anni fa, esattamente nel maggio del 1949, Indro Montanelli commentò così la tragedia che inghiottì il Grande Torino: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto "in trasferta"». L'aereo che trasportava la squadra granata, di ritorno da Lisbona, finì fuori rotta per la nebbia in una giornata maledetta e si schiantò contro i muraglioni della Basilica di Superga non lasciando nessun superstite fra le trentuno persone a bordo

Salutato il Grande Torino, il calcio italiano non ritroverà più per anni un modello di squadra così compatta e vincente, forse sino all'Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera. Nella notte di Vienna, 27 maggio 1964, i nerazzurri vinceranno la loro prima Coppa dei Campioni ai danni del leggendario Real Madrid con due reti di Sandro Mazzola, figlio dell'indimenticato capitano granata Valentino. Al termine dell'incontro, un ormai invecchiato Puskas, che da ragazzino, in un'Italia-Ungheria del 1947, aveva incrociato la sua rotta con gli uomini del Grande Torino, si sfilerà la maglia a la donerà a Sandrino: «Ho conosciuto tuo padre – gli dirà -, e oggi ho capito che tu sei degno di lui».

Il periodo storico nello stivale era delicato, erano gli anni dell'immediato dopoguerra, l'Italia era a pezzi. Ma la domenica pomeriggio, per 90', si andava allo stadio "Filadelfia" a tifare per quella squadra che trasmetteva gioia al pubblico per quanto giocava bene e per quanto vinceva, e per un'ora e mezza i problemi non esistevano, esisteva solo la passione per il pallone. Cinque scudetti per il Toro tra il 1943 e il 1949, una Coppa Italia, e il team raggiunse il monopolio della Nazionale nella seconda metà del decennio. Ogni ciclo calcistico, come tutte le creature, ha un'alba e un crepuscolo, ma quella squadra che dava la sensazione di poter vincere per sempre se n'è andata nella maniera più tragica e crudele, mantenendo intatta quell'aura magica ed eterna che solo i colossi dello sport possiedono.

Il Grande Torino ci ha lasciato prima del tramonto di un ciclo indelebile, e resterà vincente per sempre. E' per questo che ogni appassionato granata sente ancora suo il "Filadelfia", tempio di tanti successi, e con nostalgia talvolta mira a rivederlo in piedi. Nelle settimane in cui il calcio finisce nuovamente sotto accusa per l'inciviltà e l'idiozia di alcuni tifosi, ma soprattutto uomini indegni, il nuovo Torino avvicina il sogno dell'Europa League e la Juventus si cuce sul petto un altro scudetto. Due bandiere diverse, unite nel successo, e una stretta di mano reciproca e virtuale per sancire quello che è il vero spirito dello sport. L'applauso, questa settimana, è ancora per loro: Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Bongiorni, Castigliano, Fadini, Gabetto, Grava, Grezar, Loik, Maroso, Martelli, Mazzola, Menti, Operto, Ossola, Rigamonti, Schubert. Nel cielo di Superga queste stelle continueranno a brillare per sempre, in silenzio.

Chicarella e Parena

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