Ancora forte la necessità del racconto
A quasi ottant’anni dalla Resistenza partigiana si sente ancora forte la necessità e il dovere di raccontare. A Calliano vive Felice Tirone, classe 1924, che lo scorso 1° luglio ha compiuto 95 anni, partigiano combattente dal gennaio ‘44 fino alla Liberazione nell’aprile ‘45 con il nome di battaglia “Triso”.
«Era il maggio del ’43 – racconta Tirone – quando iniziai il militare a Pinerolo. Già allora volevo disertare ma la paura di mettere in pericolo la mia famiglia era troppo elevata. Venne l’8 settembre e, dopo l’armistizio, con alcuni compagni tornammo a casa.
La fondazione della Repubblica Sociale Italiana obbligò noi giovani ad arruolarci e vennero i carabinieri a prendermi a casa. Fui portato in caserma ad Asti ma riuscii a scappare».
Da disertore a partigiano
Nel dicembre del ’43 il destino di Tirone era, quindi, segnato. Non ha dovuto pensarci tanto e, con ogni probabilità, non ha neppure fantasticato su principi e valori astratti. Ha semplicemente seguito un moto d’animo interiore, una scelta d’impeto e istintiva che lo portava a lottare per ciò che era giusto.
«Mi sono arruolato – racconta Tirone – nella IX Brigata ‘Matteotti’ che, insieme ad alla VII divisione autonoma ‘Monferrato’ e alle bande ‘Tom’ e ‘Lenti’, operavano nella nostra zona. Vivevamo in una cascina nelle vicinanze di Moncalvo che chiamavamo ‘La Favorita’. Dormivamo nel fienile e mangiavamo grazie alla gente del luogo che ci ha sempre appoggiato».
La IX Brigata ‘Matteotti’ era comandata da Emilio Colombo che aveva come vice il callianese Pietro Beccuti e come commissario Alfio Mengoli, ‘Nemega’.
«Li ricordo con affetto – dice Tirone – ma, oltre a loro, un pensiero va anche a Mario Alberti, il nostro autista che ci portava in giro (con Tirone nella foto). E poi, come non ricordare Renato Capello, un giovane carissimo, un esperto del genio militare. Fu il primo partigiano a perdere la vita nel nostro gruppo».
L’obiettivo era bloccare le “colonne” repubblichine
Come spesso succedeva nei territori rurali, le brigate d’azione partigiane ingaggiavano, per lo più, scontri per bloccare l’avanzata delle carovane dei mezzi repubblicani verso le grandi città.
«Ho partecipato a tante azioni, più o meno pericolose, contro i convogli nemici in Val Cerrina, a Vignale e a Castello d’Annone. All’inizio eravamo poco armati e riuscivamo ad annientare, con bombe e mitraglie, solo una parte della carovana che comunque non si fermava. A Castello D’Annone, invece, siamo riusciti a bloccarla del tutto con una sparatoria ravvicinata. Ricordo, come se fosse ieri, che il mio comandante, alla fine del combattimento, mi disse di guardare il cappello: avevo un foro di proiettile che lo attraversava da parte a parte».
La conquista a Rocchetta Tanaro
Di situazioni pericolose Tirone ne ha viste davvero tante ma l’impresa che, forse più di tutte, lo ha segnato è stata la conquista del presidio della Guardia Nazionale Repubblicana a Rocchetta Tanaro, avvenuta il 28 febbraio 1945. «Era notte, eravamo circa una ventina, attraversammo con una barca il Tanaro e ci avvicinammo alla caserma. Per prima cosa abbattemmo la torretta che ospitava la mitraglia nemica e, una volta caduta, ci fu facile prendere l’intero edificio. Facemmo 15 prigionieri repubblichini che trasportammo, su un camion, al comando per essere giudicati». Proprio a questo punto del racconto, Tirone si interrompe. I suoi vecchi occhi, che hanno vissuto ogni tipo di orrore dovuti alla guerra, si bagnano di lacrime. Sono lacrime di pietà. Sì, proprio di pietà. Perché questi partigiani, che taluni oggi non esitano a definire spietati ma che in realtà lottavano per garantirsi la sopravvivenza, erano anche e soprattutto uomini.
Quelle lacrime non si asciugano
«Ho fatto – ricorda Tirone – tutto il viaggio di ritorno vicino ad un giovane repubblichino. Piangeva a dirotto, aveva paura di morire. Ricordo le sue preghiere e io, mosso a compassione, gli chiedevo perché lo avesse fatto. Non doveva arruolarsi con i repubblichini. Doveva dire di no, come avevo fatto io. Era italiano come me. Ecco il punto a cui la guerra ci aveva portato: ammazzarci tra di noi come bestie». Di quei 15 prigionieri solo 4 ebbero salva la vita, 11 furono condannati e giustiziati, tra cui il giovane repubblichino.
«Non riuscii a parlare con la madre»
«Ricordo che, a fine guerra, la mamma di quel giovane soldato cercava suo figlio. Voleva sapere che fine avesse fatto. Non so se lo abbia mai saputo ma io non me la sono sentita di dirglielo». È difficile da digerire ma, purtroppo, questa è la guerra. Quella stessa guerra che faceva compiere, anche ai nostri compaesani, gesti ripugnanti come fare la spia ai tedeschi: «Per colpa di queste spiate tanti partigiani, furono catturati e trucidati. In questo modo fu sterminata la banda ‘Lenti’, quando stava riparando a Madonna dei Monti di Grazzano Badoglio. C’erano ovunque collaborazionisti, purtroppo anche a Calliano». Con una grande onestà intellettuale, Tirone ammette che alcuni partigiani si sono macchiati di odiosi crimini senza giustificazione alcuna.
Un omaggio alla memoria
Tuttavia non va dimenticato che è, a seguito delle imprese di tanti valorosi uomini e donne come Tirone, che è ritornata la pace e la serenità: «Finché avrò vita non smetterò di raccontare ciò che abbiamo fatto. Lo devo alla memoria dei miei compagni che oggi non ci sono più. In fin dei conti, se sono ancora qui, è perché sono stato solo più fortunato di loro. La nostra Brigata Matteotti era formata da uomini forti e coraggiosi e ci tengo che venga ricordata al pari delle altre, forse più famose».