Conoscono l’italiano e sognano di lavorare ed essere autonomi. Padre e figlio sono arrivati in Italia da Kabul con la famiglia il 18 luglio e ora sono ospitati ad Asti. Rifugiati che sono scappati dai talebani e che, grazie al ponte aereo con l’Italia, si sono messi in salvo.
«Lavoravo come guardia nell’ambasciata italiana, ora tutti quelli che hanno lavorato con gli stranieri rischiano di essere uccisi» ha spiegato il padre, 53 anni, alla conferenza organizzata dalla Caritas, venerdì sera a Viatosto, moderata da Beppe Amico, presidente dell’ente.
Durante l’incontro per ricordare i cinquanta anni della Caritas diocesana hanno parlato anche due dei 25 profughi afghani accolti nella nostra provincia due settimane fa. Padre e figlio lavoravano entrambi all’ambasciata italiana dove hanno imparato la lingua. «Prima avevo un negozio da sarto, poi ho lavorato come guardia in ambasciata per 15 anni» spiega il genitore. Ora la Caritas gli ha procurato una macchina da cucire grazie alle volontarie di Villafranca, dove la famiglia è ospitata, e si sta muovendo per trovare anche della stoffa.
Lo scopo per l’uomo è ottenere un lavoro per essere autonomo. Intanto anche la cittadinanza si è mossa fornendo vestiti per uomini, donne e bambini.
«A Kabul ero una guardia e intanto studiavo in università da odontotecnico – aggiunge il figlio – Mi manca un anno per laurearmi e diventare dentista. Mia sorella invece stava studiando medicina». La Caritas ora si sta occupando anche dell’aspetto burocratico: «Il primo passo – spiega Amico – è far riconoscere i documenti sullo studio della lingua italiana».
«I talebani sono pericolosi per tutti gli afghani, quando trovano persone che hanno lavorato con stranieri (italiani, americani, iraniani etc.) li uccidono subito con tutta la famiglia» aggiunge con amarezza il padre. «Ho ancora dei parenti in Afghanistan, abbiamo avuto loro notizie e stanno bene. Mio padre che ha lavorato per 40 anni all’ambasciata è arrivato qualche giorno fa a Roma. Ora stiamo bene, ringraziamo molto la Caritas che ci ha aiutato. Per il futuro spero che i miei figli possano continuare a studiare, imparare meglio la vostra lingua e vorrei poter trovare lavoro».
«Aiutateci a portare le nostre famiglie fuori dall’Afghanistan»
«Aiutateci a portare le nostre famiglie fuori dall’Afghanistan», è il grido disperato che lanciano i ragazzi del Paese asiatico che, da anni, abitano nell’Astigiano. Non sono neanche una ventina gli afghani che risiedono nella nostra provincia. Sono tutti giovani, tra i trenta e quaranta anni, parlano bene l’italiano, sono detentori di asilo politico e perfettamente integrati nelle nostre comunità con un lavoro e alcuni anche con attività autonome.
«Siamo riconoscenti all’Italia che ci ha accolto. Non chiediamo assolutamente nulla, non vogliamo sostegni economici o altro, ma solo che si possa far presto e portare fuori dall’inferno dell’Afghanistan i nostri parenti che sono in pericolo. Poi a loro ci penseremo noi. Paghiamo tutto, anche il viaggio». Hanno paura per la loro incolumità perché, al contrario di ciò che si sente nelle dichiarazioni ufficiali, i talebani stanno facendo rastrellamenti casa per casa: «Abbiamo notizie che girano per le città, bussano alle porte, offrono ricompense anche ai bambini perché facciano la spia e svelino i nomi di chi ha aiutato il governo afghano o peggio ancora le forze straniere negli ultimi anni. Poi vanno di casa in casa a prenderli e, nella peggiore delle ipotesi, vengono portati via e spariscono nel nulla oppure immediatamente giustiziati sulla porta di casa come monito per tutti gli altri». Sono storie terribili quelle che ci raccontano questi ragazzi. Ne abbiamo incontrati alcuni, preferiscono mantenere l’assoluto anonimato perché hanno paura di essere rintracciati dalle milizie talebane che, a dispetto di quel che si crede, godono di forti appoggi in termini di equipaggiamento e nuove tecnologie anche di comunicazione. «Non abbiamo paura per la nostra vita, noi siamo disposti a tornare in Afghanistan a riprenderceli se solo potessimo. Abbiamo paura per le nostre famiglie che sono là. I talebani, quegli assassini, hanno in mano tutte le schede. Hanno i nomi di chi ha collaborato e li stanno cercando. Se non li trovano vanno dai parenti». Alcuni dei ragazzi con cui abbiamo parlato hanno lavorato nel passato per il governo afghano, alcuni addirittura nell’antiterrorismo. Tutti profondamente anti-talebani e, per questo, portano i segni anche sul loro corpo. Uno è stato catturato, imprigionato sulle montagne e, solo per un colpo di fortuna, è riuscito a liberarsi; un altro ci fa vedere i segni fisici che ha lasciato sul suo corpo la battaglia contro i talebani.
«Non sono difensori dell’Islam»
«Per favore non chiamateli afghani. I talebani non lo sono. Nessun afghano, degno di quel nome, riuscirebbe a fare simili atrocità a suoi compaesani. Sono tutti stranieri, principalmente pakistani, addestrati e preparati da forze straniere. Non chiamateli neppure ‘difensori dell’Islam’ perché l’Islam è altra cosa. È una religione di pace, integrazione e accoglienza. Loro fanno qualsiasi porcheria tranne che seguire questi precetti. Ammazzano tutti, anche donne e bambini inermi, se non ti sottometti al loro volere».
Dal 15 agosto scorso l’Afghanistan è ripiombato nell’inferno, una situazione peggiorata dopo l’attentato all’aeroporto di Kabul del 27 agosto. «Alcuni nostri parenti erano là in quel momento. Ci hanno raccontato scene terribili. Gente disperata che voleva solo andarsene. Chi non è riuscito a partire ora è stato schedato dai talebani e viene monitorato in quanto potenziale nemico. È solo questione di tempo e verrà preso». La speranza è che l’Italia conceda il ricongiungimento famigliare a questi ragazzi, senza troppa burocrazia a ostacolarne l’iter, come già in realtà fanno altri Paesi europei, Germania in testa. «Non sappiamo quanto tempo abbiano a disposizione per partire prima di essere catturati, giorni o addirittura ore. Noi da mesi non riusciamo più a chiudere occhio, i nostri cuori e le nostre menti sono con loro».