Rifugiati, richiedenti asilo politico, profughi: a queste definizioni dei disperati che approdano sulle coste italiane con le carrette del mare ci sarebbe da aggiungerne un'altra, quella di
Rifugiati, richiedenti asilo politico, profughi: a queste definizioni dei disperati che approdano sulle coste italiane con le carrette del mare ci sarebbe da aggiungerne un'altra, quella di "sopravvissuti". Con questa parola infatti il dottor Ugo Corino, psicologo, psicoterapeuta e psicosociologo clinico, si è rivolto ai profughi di cui si è occupato nel corso di uno studio che affronta pionieristicamente i risvolti psicologici della grande fuga verso l'Europa a cui stiamo assistendo.
Il "campione"
Il campione di riferimento ha riguardato un gruppo di rifugiati ospitati all'hub di Villa Quaglina intervistati fra novembre e aprile. Il focus era quello di indagare i traumi e le sofferenze che si portano dietro dalla Libia all'Italia. «Dati che peraltro sono ormai vecchi -? ha ammesso il dottor Corino -? perchè di fatto riguardano la situazione libica di un anno fa e sappiamo che negli ultimi mesi le cose sono cambiate tantissimo». Ma rimane comunque uno spaccato importante per elaborare strategie di approccio e di cura dell'anima, oltre che dei bisogni primari di queste persone. Il primo ostacolo incontrato dal gruppo di lavoro del dottor Corino è stata l'acquisizione della fiducia di queste persone. A fare da "patron mediatore" è stato Alberto Mossino, presidente del Piam e operatore del Coala, due realtà specializzate nella lotta alla tratta e nell'accoglienza di stranieri. Ma per la maggior parte dei profughi, gli italiani che si occupano di loro sono principalmente coloro che li stanno aiutando ad ottenere un permesso di soggiorno e la voglia di raccontare è molto poca. Un po' perchè i ricordi sono ancora troppo vicini agli eventi che li hanno generati e un po' perchè sanno che le storie sono importanti nelle scartoffie delle Commissioni territoriali che decidono sui permessi, e parlare in presenza di altri compagni di sventura potrebbe significare farsi "rubare" la propria storia. Riduzione di gruppi e la proiezione di immagini girate dal filmaker Fabio Colazzo in Libia e sui barconi (l'intero reportage è stato trasmesso dall'emittente tv La7 nell'ultima puntata di "Piazza Pulita" – diretta dal giornalista Corrado Formigli – ed è visionabile a questo link) hanno avuto il potere di smuovere i ricordi e la lingua dei richiedenti che hanno così raccontato la loro avventura ma sempre ad ondate: giornate di grande raccolta di storia alternate ad altre di silenzio di elaborazione dei ricordi. Alla fine i numeri sono stati questi: 108 persone monitorate nel campione di riferimento e 44 interviste individuali di profughi provenienti principalmente da Gambia, Mali, Ghana. Di questi, l'85% ha meno di 30 anni, «come a dire -? ha sottolineato Corino -? che sta emigrando la "meglio gioventù" africana».
Il viaggio
La maggior parte di loro è partita senza un piano di viaggio ben preciso, spinta solo dalla voglia di fuga dai contrasti politici in patria, dalla povertà, dalle accuse ingiuste rivolte a loro, da tensioni religiose e, per qualcuno, da contrasti famigliari. I viaggi verso la Libia erano fatti sempre a tappe, da un Paese all'altro, spesso seguendo compagni di sventura incontrati per strada e aderendo agli spostamenti dei grandi flussi di massa, quelli poi intercettati dai trafficanti di uomini che lucrano sulla disperazione.
Analfabeti ipermoderni
Il 60% di loro è analfabeta o semianalfabeta, ma tutti hanno dimestichezza con l'ipermodernità della tecnologia telefonica e dei social. «E' come se avessero saltato a piè pari la fase intermedia della scolarizzazione per approdare subito ad internet che usano a modo loro» specifica Corino.
Le violenze in Libia
I racconti della Libia sono molto comuni a tutti: parlano di rapine per strada, spari, pericolo costante, diffidenza verso tutti e verso tutto, sfruttamento di lavoro mai pagato. Gente che racconta di aver dormito per strada con le scarpe ai piedi per essere sempre pronti a fuggire (e per non farsele rubare). Nei loro ricordi vi è anche tanto carcere con torture, aggressioni, accoltellamenti, scarsità di cibo, e poi amici, compagni e parenti visti morire accanto a loro per spari o per stenti. Racconti di botte ai piedi per diminuirne la potenza, la virilità e la capacità di fuga o l'obbligo di fissare il sole ad occhi scoperti per indebolire le capacità di orientamento. In tutti la consapevolezza di essere merce in mano ai trafficanti che detengono il potere di vita e di morte su di loro. E poi il terrore del viaggio in mare, con la paura di naufragare, le morti in barca per stenti, i salvataggi all'ultimo minuto.
I sintomi del trauma
Sono comuni anche i sintomi che queste esperienze lasciano nei "sopravvissuti": incubi, insonnia, paura, tristezza, diffidenza, ansia, panico, somatizzazioni. Dunque cosa fare per aiutarli davvero? Per il dottor Corino bisogna ancora fare molta strada per individuare delle pratiche di analisi efficaci e utili: «Non possiamo non tener conto dell'incredibile dislivello di potere fra loro e noi, anche quando siamo loro alleati e loro amici. Noi occidentali dobbiamo spogliarci della grande illusione di poterli capire, perchè dai racconti che ci fanno, per noi gli eventi che loro hanno vissuto sono irrapresentabili, vista la profonda distanza del nostro mondo dal loro. E poi gli obiettivi: per loro sono un lavoro e soldi per vivere meglio, quindi tutto il resto, benessere psicologico compreso, non è minimamente considerato».
Daniela Peira