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Quando la disoccupazionediventa una malattia
Attualità

Quando la disoccupazione
diventa una malattia

La crisi economica persistente, la precarietà imperante e una aggravata "insufficienza esistenziale" stanno facendo aumentare il numero di giovani ammalati di depressione e di altri

La crisi economica persistente, la precarietà imperante e una aggravata "insufficienza esistenziale" stanno facendo aumentare il numero di giovani ammalati di depressione e di altri disturbi del comportamento.

A confermarlo è il dottor Riccardo Oliva, responsabile del Reparto e del Day Hospital di psichiatria dell'Ospedale di Asti che l'anno scorso ha registrato 1007 ricoveri. Per il dottor Oliva, il lavoro è altamente terapeutico per quei pazienti che soffrono di patologie mentali cosiddette meno gravi, in costante aumento. «Per uno schizofrenico, malato grave, un impiego lavorativo non è significativo nella sua cura -spiega- perchè non sarebbe in grado di portarla avanti con continuità, di affrontare le responsabilità e gli impegni che comporta. Per questo tipo di pazienti vi è il ricorso a terapie codificate che consentono di tenere sotto controllo la malattia».

Tutta un'altra storia, invece, per i pazienti meno gravi. «Per costoro il lavoro ha un effetto protettivo sul rischio di ricovero per depressione. Al di là dell'introito economico che consente di mantenere se stessi e la propria famiglia, il lavoro rappresenta un intero mondo intorno alla persona. E' un fattore strutturante delle persone, che aumenta la loro autostima, che dà conferma di essere in grado di stare al mondo e per questo tipo di malati andare a lavorare è terapeutico. Quando vanno a lavorare, i pazienti con qualche interesse psichiatrico, hanno la sensazione di una vita trasportata da un fiume tranquillo: se capita qualcosa di improvviso a monte o a valle di questo fiume, ne escono altamente destabilizzati».

Pazienti che, negli ultimi dieci anni, hanno raggiunto un 30% dei malati psichiatrici totali. «Chi non è mai entrato nel ciclo produttivo non ha punti di riferimento e non può emanciparsi dalla famiglia. Chi perde il lavoro in età matura può contare su qualche bene materiale in più (casa, risparmi), ha un'esperienza da spendere, ma normalmente possiede un minor spirito di adattamento». Per il dottor Oliva, dunque, il sostegno al lavoro diventa anche una necessità clinica perchè, oltre all'assistenza (sempre più difficile da garantire visti i tagli costanti alle spese sanitarie) bisogna creare opportunità occupazionali che tengano questo tipo di pazienti lontani dai ricoveri nelle strutture sanitarie.

Un altro fattore di recente introduzione che scatena nuovi pazienti "minori" è la dilagante ludopatia, la malattia del gioco. Con il fiorire di occasioni in ogni angolo di città e paesi (macchinette, Gratta&Vinci, le lotterie istantanee e soprattutto la possibilità di giocare online), aumentano esponenzialmente anche i soggetti che non riescono a sottrarsi al gioco smodato. Un atteggiamento ossessivo compulsivo che cambia le persone e, a ricaduta su tutti gli altri che vivono intorno al paziente. «Un giocatore rovina se stesso e la propria famiglia -spiega il dottor Oliva- perchè spende cifre altissime, si indebita, non riesce più a provvedere alle spese dei suoi cari, saltano i rapporti fra coniugi e con i figli. E' socialmente ed affettivamente più pericolosa la ludopatia di una psicosi grave».

Con una chiara critica allo Stato che, nell'autorizzare tutte queste forme di gioco, non è stato lungimirante: dall'etica al benessere delle persone non ha pensato che, così facendo, ha solo creato nuovi malati che gli costano forse più dell'aggio sulle concessionarie. «In momenti di crisi come questo, chi è più debole e fragile, non è propenso a trovare soluzioni forti e trova nel gioco una soluzione debole, palliativa, effimera. Soffrendo perchè poi vengono qui in reparto e ci dicono: "Lo so che non dovrei, ma non riesco a fermarmi. E con le nuove macchinette elettroniche gioco ancora di più di prima perchè basta schiacciare un pulsante"».

Questo l'osservatorio su chi ad una struttura psichiatrica accede. Ma per tutti gli altri che, spesso, non si considerano neppure malati? «Difficile dare consigli, spesso bisognerebbe che fossero le persone vicine ad intercettare i segnali e indirizzare le persone ai servizi che possono dare sollievo nella difficoltà esistenziale». Come nel caso di Elena Ceste, la donna scomparsa di cui parla tutta l'Italia? «Ovviamente io non conosco la signora e non posso fare diagnosi a distanza, ma se è vero quello che si è sentito in tv e letto sui giornali della sua psicosi secondo la quale era disturbata da voci e forti disagi mentali, sarebbe bastata una terapia di 15 giorni per riportarla alla serenità e alla calma».

d.p.

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