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Quel disagio che consuma i nostri giovani e li fa sentire inadeguati

Aumentano i ragazzi che si sentono inadatti rispetto ai “canoni” imposti dalla società 2.0 e che non sempre vengono ascoltati

Malessere tra i giovani: un argomento di scottante attualità vede come protagoniste le nuove generazioni che rappresentano il futuro della società. Sempre più frequenti sono i casi di depressione, i disturbi alimentari, gli atti di autolesionismo, le dipendenze, i casi di ansia e talvolta di rabbia incontrollata. Addirittura i tentativi di suicidio. Sono tutte manifestazioni del disagio di una gioventù che a questa società non riesce ad adattarsi, o almeno per la maggior parte.

Le richieste d’aiuto sono state in Italia oltre 110 mila solo nel 2022. La percentuale di minori, tra i 12 e i 18 anni, che fa uso occasionale e per di più irresponsabile di sostanze è del 40%, e le diagnosi a livello psicologico stanno aumentando in maniera preoccupante. Ma anche chi non riceve diagnosi può effettivamente sentirsi inquieto nell’immenso mondo della rivoluzione digitale, in cui i canoni di bellezza e di comportamento sono tanti, ma allo stesso tempo sembrano essere uno solo, un unico grande ideale da cui ci si sente perennemente esclusi: la troppa libertà che causa spaesamento. Molteplici sono i motivi del preoccupante fenomeno del disagio adolescenziale: l’avvento del mondo dei social, l’epidemia di Covid, le discriminazioni, i problemi familiari e quelli scolastici, tutti con un denominatore comune, la nostra società è cambiata ed anche le sue dinamiche. Si fa fatica ad accettarlo, soprattutto fra le generazioni più anziane cresciute in un sistema più rigido e severo.

Ma il malessere è reale e non, come a detta di molti, un “capriccio” di ragazzi scansafatiche in cerca di attenzione. È essenziale agire affinché il cambiamento abbia inizio, e il primo passo è proprio imparare a riconoscere che il problema c’è, è vero e si sta rendendo pericolosamente sempre più presente. È necessario dare voce ai professionisti e soprattutto a tutti i ragazzi che nella maggior parte dei casi non sono considerati seriamente, ma vengono trascurati e messi da parte dagli adulti, perché «se ai nostri tempi i lamenti non erano ammessi in alcun modo, ce la possono fare anche i ragazzi di oggi». Un errore, pensarla così, che non deve più ripetersi.

Le testimonianze degli studenti astigiani

A quattordici anni ho iniziato entusiasta il liceo. Intorno a me vedevo tanti colori, l’arancione era il mio preferito. Poi l’anno dopo ho capito che la scuola non è così semplice; dormivo meno per via del poco tempo che avevo, ma i miei amici mi tiravano su di morale, dicendomi che porto felicità nei periodi stressanti. Ero felice. Ho conosciuto quella che che credevo essere la mia persona speciale, ma poco dopo il nostro rapporto era già andato in frantumi. La scuola era faticosa e le mie amiche quasi mi ignoravano. Mamma mi diceva che non capiva dove fosse finita la sua bambina. Dove erano finiti i colori? A volte volevo solo chiudere gli occhi. L’adolescenza è un periodo difficile, ma tutti possono trovare la luce in fondo al tunnel: ora vedo tutti i colori, sto bene, mi voglio bene. [E.P. 17 anni]

La mia più grande insicurezza è sempre stata il mio corpo: alle medie venivo derisa ed esclusa perché “grassa”, ma a me bastava tornare a casa e immaginarmi magra e al centro dell’attenzione. Con il Covid, la mia camera è diventata un posto così sicuro che avevo paura di uscire per il giudizio altrui; solo il cibo mi calmava. Ora, dopo tante delusioni, ho trovato persone che mi vogliono bene e vanno oltre l’apparenza. A volte però guardo le ragazze in costume sui social e sento una vocina dire che non merito di essere accettata perché non sono come loro. Ho imparato a ignorarla, anche se è difficile. [P.C. 16 anni]

Non è facile vedersi belle e avere amiche molto carine e attraenti, sempre piene di attenzioni, non aiuta. Io cos’ho in meno? Provvedo a farmi più bella, ma in fondo ci sono cose più importanti. A volte l’invidia mi corrode: sento le mie amiche parlare e ridere dell’ennesimo ragazzo, o lamentarsi di loro stesse, ma perché sono insicure? Avrebbero potuto essere come me, sole. Non riesco a essere una brava amica e mi sento in colpa. Mi dicono che non ho bisogno delle attenzioni che ricevono loro, ma non capiscono quello che provo. Penso che in questi tempi la personalità, che con il tempo non sfiorisce, non conti niente. Conta una cosa effimera e superficiale come la bellezza. [E.A. 16 anni]

Ho cercato la definizione di “malessere”: uno stato indefinibile di inquietudine. Riduttivo. È un sentimento di inadeguatezza che mi pervade senza avviso e mi trascina in un baratro buio che sembra non avere via d’uscita: qui vorticano i pensieri, rumorosi e incessanti, qui la mente silenzia il mondo circostante e gli amici, la scuola, lo sport passano in secondo piano. La vita va avanti, ma io rimango intrappolata in una bolla da cui sembra impossibile evadere. Ma la soluzione è nella mia mente, la bolla stessa è la mia mente: questo mondo è troppo grande per prendersi cura di tutti, devo pensare io a me stessa. Imparo a convivere con la bolla distraendomi dal negativo anche quando vuole prendere il sopravvento. Fermati un attimo, respira: non c’è tempo per i brutti pensieri. [S.L. 16 anni]

«Il disagio è reale, causato da tante variabili»

La psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva, collaboratrice del Comune di Asti, Alessandra Placchi, parla del malessere in ambito giovanile.

Ultimamente è in atto una diffusione del disagio giovanile, ma molti sostengono che sia un capriccio di giovani scansafatiche.

Il disagio è reale ed è causato da tante variabili: la società progredisce troppo velocemente insieme alle nuove generazioni e non lascia spazi di pensiero. Due eventi hanno però causato la sua esplosione. Il mondo social è un fenomeno che crea comunicazione, ma anche solitudine – toglie la possibilità di guardarsi negli occhi – e conferisce libertà ai ragazzi in un mondo virtuale troppo vasto da cui dovrebbero essere protetti. Il Covid, invece, ha costretto tutti a fare i conti con loro stessi; come conseguenza, ogni tipo di malessere è sorto a galla. Ci sono poi le motivazioni familiari: la più comune è la perdita dell’autorevolezza del genitore, che non riesce a trovare un equilibrio tra i sistemi educativi di una volta e la libertà di oggi, e diventa un amico più che un’autorità.

Come viene manifestato il malessere?

Attraverso meccanismi di difesa: prima era più diffusa la tossicodipendenza, ma in questi anni i ragazzi mostrano il disagio attraverso il controllo del peso (anoressia, bulimia, ed altri disturbi alimentari) e l’autolesionismo, che è un modo per comunicare il disagio a se stessi tenendolo nascosto agli altri. Sono molto diffusi anche il fenomeno dello “hikikomori”, per cui il soggetto non riesce a uscire di casa, e della delinquenza di gruppo come ribellione.

Qual è l’approccio che usa per aiutare i ragazzi?

Dipende da quali sono le cause del malessere e dal modo che ha il ragazzo di affrontarlo. Si compone, con il ragazzo, un puzzle per cui si mettono insieme tutte le variabili della situazione al fine di trovare una soluzione.

Cosa ne pensa degli adulti che criticano il cambiamento dei ragazzi di oggi rispetto ai giovani di una volta?

Dipende: se la critica viene utilizzata al fine di reintrodurre le stesse modalità di educazione del passato, non è funzionale. Quando invece si riprendono valori importanti andati persi, è un procedimento efficace soprattutto per i genitori e per il loro arduo compito.

«Indispensabile uno sportello psicologico»

Laureata in psicologia e specializzata in terapia della coppia e dell’adolescente, la psicologa Emanuela Carelli parla di come la scuola influisca sul malessere giovanile.

Crede che il rapporto dei giovani con la scuola sia ottimale?

Dipende dai docenti e dalla loro motivazione, ma è anche indispensabile l’aiuto di uno sportello psicologico: sono aspetti determinanti per un’influenza positiva su ragazzi tanto diversi rispetto a una una volta a causa del cambiamento della società.

Crede che la scuola debba accompagnare questo cambiamento?

Sicuramente. Lavorando nel sistema scolastico noto lo sforzo della maggior parte dei docenti e dei dirigenti e sono ottimista sul fatto che questa evoluzione avverrà. Talvolta, però, alcuni insegnanti mancano di empatia verso gli studenti.

Alcuni docenti rimproverano i ragazzi perché, a detta loro, “più deboli” di una volta. È un atteggiamento stimolante?

Credo che i docenti facciano bene a rimarcare questa diversità: oggi ricorre l’incapacità di sostenere l’insuccesso perché la società non l’ha insegnato ai ragazzi. Il rimprovero, però, non è costruttivo in questo caso. Anzi è necessario che venga insegnato agli studenti ad accogliere anche un esito negativo.

Quanto l’avvento dei social e del Covid hanno influito sull’ambiente scolastico?

Molto. I social sono un’inevitabile evoluzione della società. Tuttavia hanno un lato positivo, all’utilizzo del quale è corretto educare i giovani, e uno negativo, che purtroppo a volte prevale. Dopo il lockdown c’è poi stato un grande aumento di attacchi di panico, ansia, difficoltà relazionali soprattutto per i più predisposti. I più deboli hanno lasciato la scuola, c’è stata una perdita di amicizie e un aumento notevole della solitudine.

Lei ha fatto intendere che il malessere derivi in primo luogo da una società cambiata nel corso degli anni, ma è invece possibile che possa essere la scuola a generarlo?

In alcuni casi sì, ma nella mia esperienza sono limitati. La causa è spesso un professore: quando mi arrivano lamentele da più ragazzi, mi rivolgo al consiglio di classe e, senza fare nomi, porto gli insegnanti a riflettere. Mi è capitato di avere risultati meravigliosi.

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