«Chi non ha vissuto quei momenti non può capire. Non può capire la disperazione che ti prende quando un anziano malato e indifeso, che non ha neppure più fiato per parlare, ti spalanca gli occhi per chiederti di dargli ossigeno perché si sente soffocare. E non può capire la frustrazione e lo stato di impotenza che ti prende perché non sai come aiutarlo. E qualche minuto dopo ti muore fra le braccia».
A parlare è Silvia Del Monaco, l’infermiera “resistente” della casa di riposo di Rocchetta Tanaro che fra le prime, a marzo, ha capito la portata del disastro cui stavano andando incontro con i primi positivi al Covid.
E’ lei che ha convinto i colleghi (fra i quali il marito e il figlio) a non tornare alle loro famiglie perché di quel virus si sapeva troppo poco, cominciavano a contarsi i nonnini che avevano i sintomi del Covid e troppo alto era il rischio di contagiare i propri cari. Quella di Rocchetta Tanaro è stata la prima casa di riposo in Piemonte in cui gli operatori si sono auto reclusi per contenere il contagio.
Quaranta giorni. Per quaranta giorni Silvia ha dormito su una brandina accanto alla macchinetta del caffè e con lei tanti colleghi che non hanno fatto rientro mai alle loro case. Non volevano infettare le famiglie e non volevano lasciare soli gli anziani ospiti che, nel frattempo, si ammalavano e, purtroppo, morivano. Alla fine della prima ondata la casa di riposo ha contato il dimezzamento degli ospiti e 13 anziani deceduti per Covid, dei quali 3 in struttura.
E per quelli che sono deceduti in casa di riposo è stato quello di Silvia l’ultimo volto che li ha accompagnati. «Siamo stati abbandonati, soprattutto dal servizio sanitario – non ha timori di affermare l’infermiera – quante volte ho chiamato il 118, la guardia medica, il Pronto Soccorso dell’ospedale di Asti, i medici di base e non ho ottenuto nulla. Nessuno voleva visitare i pazienti in una struttura piena di positivi. In cinque giorni abbiamo finito le scorte di Tachipirina che normalmente bastavano per mesi e ho chiesto ai pochi colleghi che tornavano a casa la sera (perché vivevano da soli) di portarmi le loro scatole, per far fronte alle tanti febbri dei nonnini.
Ci mancava l’ossigeno, ci mancava un collegamento medico-sanitario, nessuno indicava la terapia, tutti avevano paura. E noi, qui, a cercare di fare del nostro meglio per arginare le sofferenze degli ospiti. Per quaranta giorni abbiamo fatto turni da 16/18 ore per stare dietro a tutti quando tutti avevano la febbre, la diarrea, dovevano essere imboccati».
Questo, e molto altro, è finito nel verbale dei Nas che hanno contattato l’infermiera per ricostruire quei giorni drammatici.
Daniela Peira