Una notizia lontana dal gossip agostano eppure così forte da fare il giro di tutti i media italiani riportando Asti al centro di analisi, discussioni, commenti sulle responsabilità dei magistrati.
La notizia è quella che riguarda la decisione della Corte di Cassazione a sezioni civili unite in merito alla vicenda che si è consumata in tribunale ad Asti il 18 dicembre del 2019 quando un collegio di tre giudici (presidente Roberto Amerio e le colleghe Giulia Bertolino e Claudia Beconi) chiamato a sentenziare su un brutto episodio di violenza sessuale di un padre sulla figlia, aveva inanellato una serie di condotte fuori dalle norme della procedura penale.
Il collegio, infatti, che aveva già tenuto altre udienze durante la stessa mattinata, era uscito per qualche minuto al termine del precedente processo, poi era rientrato e, senza fare l’appello delle parti quindi senza neppure riaprire il dibattimento successivo che era alle sue battute finali, il presidente Amerio aveva letto la sentenza di condanna (pesante) dell’imputato e della moglie, rea di essersi accorta delle violenza sulla figlia e non averle denunciate. Fra lo sbigottimento di pm, avvocato di parte civile e difensore dell’imputato, (l’avvocato Silvia Merlino) la quale, appena terminata la lettura della sentenza ha sommessamente ricordato ai tre giudici di non aver ancora fatto la sua arringa difensiva.
E qui l’ulteriore condotta: il presidente strappava la sentenza in aula.
In un primo tempo, le condotte in aula che in più atti ufficiali furono definite “abnormi”, vennero giudicate su due diversi binieri: quello della magistratura ordinaria che si è attivato innanzi al Tribunale di Milano competente sui giudici astigiani che decise per un’archiviazione della posizione del presidente Amerio. E quella avanti alla sezione disciplinare del Csm.
E qui i destini furono diversi. Mentre per le due giudici donna, Beconi e Bertolino, vi furono sempre delle assoluzioni confermate poi in Cassazione in quanto fu il presidente a leggere il dispositivo prematuro e loro non avrebbero in alcun modo potuto opporsi all’inopinata e imprevedibile lettura del dispositivo, per Amerio arrivò la sanzione della “censura”.
Una decisione che non piacque né alla Procura generale né allo stesso Amerio che ricorsero in Cassazione: la prima per ottenere la condanna anche dei due giudici donna del collegio, il secondo inseguendo l’assoluzione.
E la Cassazione ha deliberato confermando l’assoluzione per Beconi e Bertolino, per le quali la vicenda dunque finisce qui. Mentre per Amerio ha dichiarato l’annullamento della “censura” con rinvio a nuovo giudizio davanti al Csm che dovrà tenere conto però di alcuni precisi criteri.
I giudici della Suprema Corte, infatti, ritengono come il Csm, nel condannare Amerio non abbia adeguatamente considerato le circostanze “stressogene” in cui stava lavorando nel periodo in cui è capitato “l’incidente” in aula.
Altro argomento a giustificazione dell’operato del presidente è quello del mancato danno derivato dalla cosiddetta “sentenza prematura”.
In fondo quella sentenza è stata annullata e l’imputato è stato nuovamente giudicato da nuovo Collegio, senza che avesse perso alcuna “chanche”.
Per dovere di cronaca, nella sentenza contestata l’imputato fu condannato a 11 anni e la moglie a 4; in quella successiva, arrivata al termine di nuovo processo con il nuovo collegio la moglie fu assolta e la condanna dell’uomo scese a 7 anni, poi ridotta a 4 anni in Appello e ora pendente in Cassazione.
Sulla vicenda è intervenuto anche Enrico Costa, deputato di Azione che sulla testata Il Dubbio scrive: «Se un magistrato è stressato può fare ciò che vuole? Chiederò al Ministro Nordio di inviare gli ispettori ad Asti per verificare su quante sentenze abbia influito lo ”stress” corroborato da perizia medica del Presidente del Collegio, che avrebbe causato la grave mancanza».
Camere Penali criticano la troppa “benevolenza” del Csm nel giudicare
i colleghi giudici
rano stati i primi a diffondere l’accaduto nell’aula del tribunale di Asti, nel dicembre del 2019.
Sono gli avvocati della Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte alla quale si è associata la Camera Penale di Asti.
Oggi i rispettivi presidenti, Roberto Capra per Torino e Davide Gatti per Asti, sono diversi dai loro predecessori all’epoca dei fatti, ma mantengono la stessa linea di difesa del ruolo dell’avvocato all’interno del processo.
«La lettura di una sentenza prima dell’arringa di tutti i difensori, significa che i tre giudici si devono essere riuniti in camera di consiglio per assumere collegialmente la decisione senza che a nessuno dei medesimi sia venuto in mente di non aver ancora ascoltato le ragioni della difesa – si legge in un commento congiunto delle due Camere Penali – Il problema, infatti, non è soltanto leggere una sentenza senza aver ascoltato l’arringa finale di un difensore, aspetto di per sé di inaudita serietà sotto il profilo del rispetto del ruolo defensionale, bensì decidere senza aver aggiunto al quadro di conoscenze anche le considerazioni che un avvocato che ha seguito l’intero processo è in grado certamente di offrire».
E in aggiunta: «Un giudice che non si accorge, prima di pronunciare la sentenza, che non è stata data parola ad una delle parti, ossia che è mancato uno di questi tasselli, non può che essere un giudice che reputa superfluo il contraddittorio. E’ un fatto grave che sottintende la percezione dell’avvocato come inutile orpello in spregio al suo ruolo costituzionalmente previsto a garanzia del giusto processo».
Le due Camere Penali, poi, attirano l’attenzione su un altro aspetto più generale emerso dall’analisi della conclusione del provvedimento disciplinare a carico dei tre giudici astigiani che va diritta al cuore del tema “autoassolutorio” dei togati.
«La Magistratura italiana riporta un tasso di condanne in via disciplinare realmente minimo e poco comprensibile di fronte ad un sistema al collasso, per qualità e tempi delle risposte. Non è più sostenibile che nel nostro sistema la giurisdizione domestica, che sia il CSM o la Corte di Cassazione in ultima istanza, continui ad essere gestita con una inaccettabile generalizzata benevolenza tra pari. L’auspicata riforma del CSM è ora una priorità, non solo per il suo corretto funzionamento in tutti i suoi aspetti, quali tra l’altro le nomine dei vertici degli Uffici Giudiziari, ma soprattutto per addivenire ad una giustizia disciplinare che realmente funzioni quale primaria garanzia di imparzialità del giudice».