Da una parte una donna, dipendente di un grande magazzino di bricolage che accusa il suo ex responsabile di punto vendita di aver tenuto per quasi due anni un atteggiamento vessatorio nei suoi confronti associato a molestie sessuali. Dall’altra lui, sotto processo, che invece nega decisamente di aver messo le mani addosso alla collega e dà una lettura diversa di quegli episodi denigratori che gli vengono contestati.
In una lunga deposizione, la donna, costituita parte civile con l’avvocato Roberta Rosso, ha raccontato di aver avuto sempre un ottimo rapporto con il suo capo, tanto da andare oltre la colleganza e arrivare ad una consolidata amicizia in cui la donna frequentava casa e famiglia di lui, gli aveva regalato un cane e durante le ferie si occupava di andare a controllare la loro abitazione. Ma ad un tratto, intorno al 2019, qualcosa è cambiato, ha raccontato. «Ha cominciato a denigrarmi ad ogni occasione, facendo pesanti allusioni al mio fisico, dicendomi che ero grassa, brutta e poi che ero un’incapace, non ero precisa nel mio lavoro, mi riprendeva su ogni minima cosa. Ma a peggiorare le cose sono state quelle continue pacche sul sedere, strusciamenti, un tentativo di palparmi il seno, allusioni sessuali pesanti, continue ed insopportabili». A rincarare la dose nel capo di accusa anche una foto scattata alla dipendente mentre si stava riposando (prima di attaccare il turno) e fatta girare sia sulla chat dei dipendenti che usata come salvaschermo del pc all’ingresso del magazzino dove tutti potevano vederla. Nelle testimonianze anche un foglietto scritto a mano dal capo in cui c’era un elenco di prestazioni sessuali con tanto di “tariffario” da applicare a chi (donna) avesse voluto stare con lui.
La parte offesa ha raccontato di aver passato due anni di inferno, di non aver potuto fare denuncia prima perché aveva estremamente bisogno di lavorare e di essersi però decisa di rivolgersi prima al sindacato Uiltucs per segnalare quando accadeva sul posto di lavoro e poi sporgendo la querela che ha originato il processo con le indagini condotte dall’aliquota della Polizia di Stato in seno alla polizia giudiziaria della Procura.
Questo perché per lei il posto di lavoro era diventato un luogo di estremo disagio e questo stato emotivo aveva compromesso anche la serenità a casa, con uno stato di profonda prostrazione e pianti continui.
In aula quattro colleghi di lavoro che hanno confermato le accuse rivolte dalla donna al loro ex capo, dicendo di aver assistito personalmente alle “pacche”, agli strusciamenti, ai continui contatti fisici e aggiungendo che i giudizi denigratori venivano rivolti sia in presenza della parte offesa, sia in sua assenza.
Presente in aula, l’imputato assistito dall’avvocato Pierpaolo Berardi si è difeso su tutta la linea.
«Non ho mai messo le mani addosso alla mia ex collega – ha detto ai giudici Giannone, Sparacino, Dunn e al pm Greco – Confermo che siamo stati buoni amici per anni e che è vero che le cose fra noi sono cambiate, ma perché ho scoperto degli ammanchi in cassa. Ho scoperto che utilizzava a suo vantaggio i buoni riservati ai clienti. Ho le prove di questo. Ne ho parlato con lei, non ho voluto denunciarla ai titolari dell’azienda per non farle perdere il lavoro sapendo che ne aveva bisogno e questo è il ringraziamento. Sulla foto posso solo dire che era normale per noi scattarci foto anche goliardiche sul posto di lavoro e lei stessa ci aveva scherzato su nella chat di gruppo. Stessa cosa per il tariffario che era stato uno scherzo fra noi fatto su un foglietto durante la pausa caffè».
Alla domanda su come mai altri colleghi avessero però confermato quanto detto dalla parte offesa, l’ex responsabile (che nel frattempo è stato licenziato) ha risposto che ognuno di loro aveva dei motivi di acredine nei suoi confronti per ragioni di contratti di lavoro o di rimproveri ricevuti.
Per la prossima udienza la difesa dell’imputato ha annunciato il deposito dell’audio di più conversazioni avute con la parte offesa in cui si parlava degli ammanchi in cassa.