Un’udienza emotivamente molto intensa quella che si è tenuta questa mattina in Tribunale ad Asti davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Chinaglia e a latere il giudice Dunn.
Giudici togati e popolari riuniti per ricostruire uno dei fatti che l’anno scorso ha scosso la vita di Canelli e Nizza, dove tutti conoscevano Piero e Valerio Pesce, 62 e 28 anni.
All’alba del 23 novembre, proprio il padre, Piero, ha chiamato il 112 per chiedere l’intervento dei carabinieri confessando immediatamente di aver ucciso il figlio a coltellate, nella camera da letto del loro appartamento. Quando la pattuglia è arrivata, ha subito notato che l’uomo aveva anche tentato di suicidarsi.
Una storia tragica che ora trova il suo epilogo in aula di tribunale, dove stamattina Piero Pesce è arrivato scortato dalla Penitenziaria del carcere di Biella dove è rinchiuso. Accanto il suo difensore, l’avvocato Carla Montarolo e nel pubblico una coppia di amici.
E’ stata la giornata dello scontro fra i consulenti di psichiatria forense chiamati a determinare la sua capacità di intendere e volere al momento dell’omicidio. Da una parte il dottor Raffaele Pugliese incaricato dal pm Cotti, dall’altra la dottoressa Ilaria Rossetto e il dottor Stefano Zago per la difesa.
Ma prima della lettura clinica della mente di Pesce, due testimonianze piene di commozione. Sono state quelle della suocera e della madre dell’imputato. Due donne alla soglia dei 90 anni, la suocera in sedia a rotelle, entrambe provate dall’aver perso il nipote e dal vedere il figlio e genero in carcere. La moglie di Pesce è mancata qualche anno fa dopo una lunga battaglia contro un tumore che se l’è portata via. Tutte e due le anziane, appena hanno raggiunto il banco dei testimoni, hanno cercato lo sguardo di Piero e gli hanno mandato un saluto carico di affetto.
E tutte due lo hanno dipinto come un figlio, marito, padre, genero esemplare che si è sempre diviso fra lavoro, famiglia, cura degli anziani genitori. «Una persona buona che ha sofferto tanto per la morte di sua moglie Daniela e che soffriva tanto per come si comportava Valerio».
La madre, poi, è rimasta in aula a seguire il resto del processo anche se più che lo scontro fra i consulenti le interessava poter stare di nuovo un po’ vicino al figlio, preoccupandosi, come ogni madre, di sapere se mangiava abbastanza, se era in salute, se poteva aiutarlo in qualcosa.
Mentre i consulenti esponevano i motivi che li hanno portati a concludere per due valutazioni opposte: per il medico incaricato dal pm, Piero Pesce era pienamente consapevole di quello che stava facendo, per quelli incaricati dalla difesa, invece, si trovava in stato di infermità mentale.
Il dottor Pugliese ha riconosciuto la depressione nell’imputato ma l’ha definita una “reazione” al grave lutto seguito alla morte della moglie che era il fulcro della loro famiglia. Ha parlato di Piero come di un uomo molto rigido, preciso, ordinato ed organizzato che però si è trovato da solo con un figlio che non rispondeva alle sue aspettative. Valerio non andava benissimo a scuola e aveva “sprecato” due anni all’Università. Anche prima della morte della moglie i rapporti fra padre e figlio non erano di grande confidenza e le cose non sono migliorate. Anche se l’uomo, guidato da un grande amore verso il figlio e un profondo senso di responsabilità, ha fatto un importante investimento per “sistemarlo” con la tabaccheria ad Alba e per un primo periodo questa sembrava essere stata la scelta giusta.
Ma ad un certo punto, Valerio, non “funziona” più, come hanno spiegato gli psichiatri forensi, comincia a bere e a giocare e questa condizione stravolge il mondo ordinato del padre che, ancora preda di fasi depressive cicliche, sceglie di togliergli la vita. E lo fa in piena consapevolezza, scegliendo l’arma (un coltello da carne), dove colpirlo (al collo) e il momento migliore (mentre sta dormendo).
I consulenti della difesa hanno allargato un po’ lo spettro in cui è maturato l’omicidio rivelando che è stato l’apice di un progressivo peggioramento delle sue condizioni mentali che da depressione maggiore sono “scivolate” verso la psicosi.
«Per l’imputato il figlio era ormai perduto, non vedeva speranze di guarigione dalle sue dipendenze, considerava questa situazione una catastrofe emozionale ed economica, una rovina e una colpa che si addossava per non essere stato in grado di sostenerlo e di accompagnarlo così come aveva promesso alla moglie alla sua morte – hanno spiegato i consulenti Rossetto e Zago – Il giorno prima dell’omicidio, Valerio aveva promesso alla nonna paterna che non avrebbe più bevuto. Il padre l’aveva saputo e si era riaccesa una flebile speranza di uscire fuori da un problema che lui vedeva senza soluzione. Per tutta la notte pensa e ripensa alla situazione critica del figlio e risalgono i dubbi sul fatto che potesse tornare ad una vita normale. Quando al mattino, svegliatosi presto per andare a lavorare, trova in cucina alcune bottiglie vuote di birra che Valerio aveva bevuto nella notte, capisce che il suo cambiamento non avverrà mai. Non vede più futuro, nè per il figlio, nè per lui. E decide di farla finita».
I consulenti parlano di un omicidio d’amore, perchè la scelta di uccidere il figlio (in modalità che riducano al minimo il dolore) e poi subito dopo il tentativo di suicidio, sarebbe dettata dal voler sottrarre Valerio alle sofferenze che le sue dipendenze gli avrebbero provocato. Un ultimo gesto di protezione e di “soluzione” del problema. Per quanto tragico e radicale.
A fronte di due valutazioni così lontane, la Corte d’Assise ha deciso di nominare il dottor Franco Freilone per una terza perizia.