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Cronaca

Castelnuovo Calcea: trent’anni fa il ritrovamento di due donne massacrate in un campo innevato

Una di loro si sarebbe dovuta sposare di lì a qualche giorno. Le indagini della polizia originate da una cornetta del telefono messa male. In tanti sapevano ma tacquero

Un campo innevato di Castelnuovo Calcea “sporcato” da grandi chiazze di sangue rosso: è la prima immagine che cronisti e lettori ebbero di uno dei più efferati casi di cronaca nera passata alla memoria come il duplice delitto di Castelnuovo Calcea. Sono passati esattamente trent’anni da quando i corpi di Maria Teresa Bonaventura e Giovanna Barbero vennero rinvenuti in quel campo, a poco distanza l’uno dall’altro, orrendamente sfigurati da numerose ferite inflitte, come si scoprirà in seguito, da una roncola.
E, quasi in contemporanea, la chiamata di un operaio di Calosso che, tornato dal turno di lavoro alla Ferrero di Alba, aveva trovato il piano superiore della sua abitazione distrutto da un incendio e l’assenza della moglie. Sua moglie era Maria Teresa, una delle due vittime trovate nel campo; Giovanna era la sua amica e nell’armadio di casa aveva il vestito da sposa per le sue nozze, fissate di lì a pochi giorni.
Cominciarono le indagini serrate degli investigatori i quali, in quel momento, neppure immaginavano l’orrore dietro a quel fatto. E non immaginavano quanta gente fosse a conoscenza di quanto accaduto e tenesse la bocca chiusa.

La prima pagine de La Nuova Provincia di trent’anni fa la settimana dopo il duplice delitto

Quella cornetta sollevata che diede la svolta alle indagini

 

La svolta nelle indagini avvenne per una casualità.
Poco più di un anno dopo l’efferato delitto delle due amiche, nel marzo del 1992, in un campo vicino venne ritrovato il corpo senza vita di Marina Zaio, una prostituta torinese.
Le indagini vennero affidate alla Squadra Mobile della Questura di Asti e gli investigatori, dopo aver isolato un numero di clienti abituali, misero sotto intercettazione alcuni telefoni.
Della morte della Zaio non ne venirono a capo, ma in compenso risolsero il caso del duplice delitto.
In uno dei telefoni in cui avevano messo una “cimice” per intercettare le chiamate, venne posata male la cornetta e questo lo trasformò in una microspia ambientale in grado di captare le conversazioni che si tenevano nella stanza in cui era posizionato.
E, quello che gli investigatori sentirono diede la svolta alle indagini: gli interlocutori parlavano della borsetta di una delle due vittime di Castelnuovo Calcea che era custodita a casa di una ragazza di Nizza. Non c’era tempo da perdere, e quando, pochi giorni dopo, si presentarono a casa della ragazza, lei crollò e raccontò quello che era accaduto nella tragica notte del 7 gennaio 1991.

Gianmario Mansueto in tribunale

 

Il coraggio della “supertestimone”

 

Venne subito identificata come la “supertestimone” perché assistette di persona a tutta la sequenza di tragici eventi e trovò, nonostante la giovane età, il coraggio di raccontare cosa avvenne. Sentimento che non sfiorò invece mai gli altri che erano a conoscenza degli eventi.
La ragazza, che all’epoca era fidanzata con un amico stretto di un camionista di Nizza, Gian Mario Mansueto, raccontò che quella sera il suo ragazzo la portò in una cascina a Calosso dove ad attenderli c’erano due donne che lei non conosceva. Si trattava della Bonaventura e della Barbero, piuttosto chiacchierate per le loro frequentazioni. Poco dopo arrivò anche il camionista che chiese di poter parlare con la Barbero nella camera da letto, al piano superiore. Riferì che ben presto sentirono i due litigare e poi la donna lanciare un urlo straziante. Quando salirono per vedere cosa fosse successo, videro Mansueto con la roncola insanguinata ancora in mano e la donna colpita a morte. Subito dopo venne arrotolata in una coperta e Mansueto si fece aiutare dall’amico a portarla al piano di sotto e caricarla sulla sua auto. La supertestimone e l’amica della vittima assistettero impietrite a tutto questo, così come seguirono senza fiatare i due uomini al campo innevato in cui la Barbero venne abbandonata. E’ a quel punto che la Bonaventura uscì dall’auto e si mise ad urlare contro Mansueto il quale usò la stessa roncola per uccidere anche lei, sul posto. Poi tornarono nella cascina di Calosso per appiccare l’incendio che avrebbe dovuto nascondere le tracce dell’omicidio. Da quella casa rubarono delle armi regolarmente detenute per simulare una rapina. La borsetta della Barbero e la roncola vennero affidate alla supertestimone ed è a casa sua che vennero ritrovate dalla polizia.
Mentre il movente che spinse l’omicidio della Bonaventura fu uno scatto di ira di Mansueto che non poteva permettere che la donna lo denunciasse, quello che portò alla morte della Barbero è stato identificato nella possessività del camionista, che intratteneva da un anno una relazione clandestina con lei e non gradiva che lei si sposasse di lì a pochi giorni con il suo fidanzato ufficiale. Fra i testimoni anche l’allora sindaco di Canelli, Roberto Marmo, che raccontò di aver ricevuto in ufficio la Barbero pochi giorni prima del delitto: la donna gli chiese come fare per annullare le pubblicazioni di nozze perché non intendeva più sposarsi. Inoltre nel processo era emerso che la donna doveva restituire qualche milione di lire al camionista ma non riusciva ad onorare il debito.
Quando il pm Saluzzo chiese alla supertestimone perché non si fosse rivolta alle forze dell’ordine per denunciare quell’orrore, la ragazza, che all’epoca aveva poco più di 20 anni disse di essere letteralmente terrorizzata da quanto visto e da quanto fosse in grado di fare Mansueto, dipinto come uomo molto violento.

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Il gruppo degli “scellerati”

Una delle rivelazioni più inquietanti del processo, oltre alla crudeltà e alla ferocia dell’uccisione delle due donne, fu quella dell’omertà che permeò un folto gruppo di persone che gravitava intorno a Mansueto e agli amici che, a vario titolo, lo aiutarono a coprire le tracce e che erano al corrente della sua responsabilità nel duplice delitto.
Il pm Saluzzo alla sua requisitoria li definì il “gruppo degli scellerati” che comprendevano uomini e donne appartenenti ad una sorta di “sottobosco” di Nizza e dei dintorni che sapevano ma non hanno mai avuto la minima spinta a rivolgersi agli investigatori. Anzi.
Qualcuno, come una coppia, approfittò pesantemente della supertestimone e della sua famiglia per ricattarla spacciandosi per un carabiniere e una poliziotta e chiesero del denaro per tenere la ragazza fuori dalle indagini sul duplice delitto. Con questo pretesto si fecero consegnare circa 150 milioni di lire in pochi mesi, costringendo la famiglia anche ad indebitarsi.
Tutti questi testimoni sfilarono in aula, qualcuno con grande disinvoltura, squarciando il velo su quella società “parallela” connotata da una grande povertà morale ed etica.

 

Cinque arresti e un doppio ergastolo per il camionista

 

Cinque furono le persone arrestate e rinviate a giudizio.
Gian Mario Mansueto, difeso dall’avvocato Mirate, era il principale imputato, accusato della morte di entrambe le donne mentre agli altri quattro imputati, difesi dagli avvocati Pasta, La Matina, Gallo e Rattazzi, erano contestati reati come vilipendio di cadavere, favoreggiamento, incendio, furto.
Le udienze in Corte d’Assise, davanti al presidente Renzo Massobrio e ai giudici popolari, si susseguirono a ritmo serrato e, se per Mansueto la sentenza era segnata fin dall’inizio, ovvero doppio ergastolo, per gli altri quattro arrivarono assoluzioni o condanne enormemente ridimensionate rispetto alle richieste del pm. I giudici rimasero in camera di consiglio per oltre 10 ore prima di uscire con la sentenza.

Nella ricostruzione della vicenda, effettuata attraverso la consultazione dell’archivio de La Nuova Provincia, abbiamo volutamente scelto di non fare i nomi della supertestimone e degli altri imputati poi assolti per rispettare il diritto all’oblio.

Daniela Peira

 

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