A 9 anni esatti dalla tragica morte sul lavoro di Antonino Marchica, viene scritta la parola “fine” alla tortuosa vicenda giudiziaria che l’ha seguito.
Nei giorni scorsi la Corte d’Appello di Torino per l’infortunio mortale ha condannato due dirigenti dell’O/Cava di Ferrere, Fiorenzo Nicola e Andrea Debernardi rispettivamente a 9 e 6 mesi.
Marchica lavorava per la O/Cava da una ventina di anni quando, in un turno di notte del dicembre del 2015, ha perso la vita nel macchinario chiamato “spara anime”. Era stato dilaniato dal movimento verticale delle colonne nella parte superiore della macchina che aveva raggiunto nel tentativo di capire da dove provenisse un rumore anomalo.
I due dirigenti, difesi dall’avvocato Avidano, finirono sotto processo perchè la parte pericolosa di quel macchinario non era stato adeguatamente protetta.
In primo grado il gip di Asti, nel 2018, mandò assolti i due imputati in quanto quella parte del macchinario era difficilmente accessibile, non era mansione di Marchica raggiungerla per fare manutenzione e fu il suo comportamento ad auto esporlo al rischio.
Di diversa opinione la Corte d’Appello che condannò i due dirigenti perchè era comunque presente una scaletta per accedere a quella parte pericolosa apposta dopo l’installazione del macchinario e non inserita nella valutazione dei rischi.
Vi fu un ricorso in Cassazione della difesa e la Suprema Corte annullò la condanna rinviando in Appello chiedendo nuovi accertamenti tecnici che vennero affidati ad un perito in un sopralluogo del gennaio di quest’anno.
Le sue conclusioni sono state determinanti per la nuova condanna dei dirigenti.
Intanto, all’epoca dell’infortunio mortale, non vi erano ostacoli all’ingresso della zona pericolosa (che invece subito dopo vennero disposti con un doppio cancelletto).
Inoltre ha restituito al lavoratore la liceità del suo comportamento, sostenendo che, seppur connotato da eccessivo zelo, era comunque teso ad individuare la fonte di quel rumore anomalo al macchinario al quale lavorava.
La sentenza parla sì di una condotta imprudente del lavoratore, ma se all’epoca dell’infortunio mortale fossero già stati presenti i due cancelletti sistemati subito dopo la morte di Marchica (uno dei quali va sbullonato per essere superato), l’operaio non avrebbe perso la vita.
Soddisfazione per questa conclusione è arrivata dalla Fiom Cgil di Asti che fin dalle prime battute del processo si era costituita parte civile con l’avvocato Elena Poli.
«La perseveranza di Fiom che ha sempre affiancato la pubblica accusa nel sostenere la responsabilità degli imputati – si legge in una nota stampa – ha permesso di ottenere giustizia per un lavoratore rimasto vittima di un incidente mortale causato dalla violazione da parte dell’azienda delle normative in materia di sicurezza sul lavoro».