Il caso di Elena Ceste, dopo il ritrovamento dei resti della donna nel rio Mersa, si è rapidamente trasferito sul ring giudiziario dove un ruolo importante lo hanno avuto i difensori di parte civile.
Gli avvocati Carlo Tabbia e Deborah Abate Zaro, (scomparsa nel luglio scorso in seguito ad un incidente stradale), fin da subito sono stati scelti dai genitori di Elena per rappresentare loro e i quattro nipoti rimasti orfani della madre. A distanza di dieci anni, la difesa di parte civile nel caso Ceste-Buoninconti rimane una delle esperienze professionali e umane più importanti della loro carriera forense.
Avvocato Tabbia, nella triste e drammatica vicenda di Elena, le vittime sono cinque: la madre assassinata e i suoi quattro figli. Lei e la sua indimenticata collega Deborah Abate Zaro siete stati molto vicini alla famiglia Ceste e poi ai ragazzi. Che bilancio si sente di fare a dieci anni dalla scomparsa della donna?
Dal punto di vista processuale possiamo usare il luogo comune “giustizia è fatta” ma sul fronte emotivo è una vicenda che ha segnato profondamente sia me che Deborah con la quale parlavamo spesso dei nonni e dei ragazzi. Perché la condanna non ha messo fine allo stravolgimento di quella famiglia e noi, per quello che abbiamo potuto, abbiamo fatto il possibile per essere sempre loro vicini.
I femminicidi sono all’ordine del giorno e in più occasioni è stato invocato un aiuto concreto dello stato nei confronti dei figli lasciati dietro. Per la vostra esperienza, questo aiuto è arrivato? In cosa sono stati aiutati i nonni e i ragazzini e in cosa invece hanno dovuto superare gli ostacoli più alti?
Sicuramente la famiglia ha ricevuto molti più aiuti economici da associazioni e da privati rispetto a quelli avuti dalle istituzioni. Ricordo, a titolo di esempio, la straordinaria raccolta fondi attivata dagli Amis d’la Pera per garantire gli studi ai ragazzi o il contributo recente dato per saldare quel debito di migliaia di euro con il Comune di Costigliole per l’Imu calcolato come se la casa di famiglia, abbandonata il giorno stesso dell’arresto di Michele con l’affidamento dei ragazzi minorenni ai nonni, come seconda casa. Non voglio entrare nei particolari, ma i nonni, con quattro ragazzi da crescere, hanno davvero fatto i salti mortali anche sul piano economico senza ricevere adeguato supporto dallo Stato.
Un caso come quello di Elena Ceste non è solo un omicidio e dunque un processo ma si porta dietro tante altre questioni ed incombenze giudiziarie riguardanti casa, affidamento, responsabilità. Un po’ di queste vicende collegate sono anche finite sul giornale perché hanno rappresentato ulteriore sofferenza per Lucia e Franco Ceste. Ce le riassume?
Dalla dichiarazione di decadenza della patria potestà di Michele sui quattro figli alla lunga causa per l’affidamento esclusivo ai nonni materni che ha visto numerosi appelli da parte del padre dei ragazzi e della sua famiglia. Passando per l’altrettanta complessa causa intentata per escludere Michele dall’asse ereditario della moglie, visto che ne aveva provocato la morte. Oggi l’indegnità all’eredità è automatica per l’erede che ha cagionato la morte volontariamente, ma all’epoca, nonostante le promesse di Michele mai mantenute, è stata lunga fare in modo che i ragazzi fossero esclusivi eredi dei beni di Elena. E a tutto questo si è aggiunto anche il caso del pagamento dell’Imu su quella casa che ancora non è stata messa in vendita.
Come avvocati difensori della famiglia, quali sono stati i momenti emotivamente più intensi vissuti da lei e dalla collega Abate Zaro? E quando avete superato il confine strettamente professionale per lasciarvi coinvolgere dalla profonda umanità che avete sempre dimostrato verso nonni e ragazzi che vi hanno presto considerati persone di famiglia?
Ricordo esattamente quel momento che è stato anche quello emotivamente più impegnativo. Risale al giorno dell’arresto di Michele. Alle 8.30 hanno telefonato in studio dalla Procura della Repubblica di Asti per annunciare che l’uomo era stato arrestato ed era stata predisposta la rete di tutela dei minori. Io e Deborah siamo saltati in auto e lei con la nonna sono andati a prendere i tre più piccoli a scuola a Costigliole mentre io con il nonno sono andato ad Alba dove la più grande, Elisa, frequentava il primo anno di superiori. Ricordo quel ritorno a casa, a Govone, nel silenzio più totale. Elisa già aveva saputo, da internet, quello che era successo e non ha detto una parola. Così come sull’auto di Deborah. Quel giorno ci fermammo a pranzo con loro e rimanemmo fino a pomeriggio inoltrato.
E poi il giorno del funerale. Impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla disperazione davanti alla bara di una madre di quattro figli. E impossibile non cedere di fronte al pianto che, forte, si era levato all’arrivo della bara davanti alla chiesa. Era quello di uno dei figli di Elena.
Al contrario non ricordo con particolare emozione il giorno delle condanne, soprattutto quella di primo grado. Certo, era quello che ci aspettavamo ma sapevamo anche che Franco e Lucia, in cuor loro, fino all’ultimo avevano sperato che Michele non fosse l’assassino della loro figlia.
Oggi tre dei quattro figli di Elena sono maggiorenni, la quarta, è un’adolescente. Cosa augura a tutti loro?
Non posso che augurare loro ogni bene possibile. Hanno già pagato in anticipo un conto salatissimo alla vita, ora spero che li aspettino solo serenità e normalità.
E c’è qualcosa, invece, che si sente di voler dire a Buoninconti dopo aver assistito così da vicino alla devastazione provocata dal suo gesto?
Ma dopo aver visto da vicino e toccato con mano la disperazione, la devastazione e la sofferenza provocata dal suo gesto cosa posso mai dirgli? Spero solo si renda conto del male che ha fatto ai suoi figli e a sua moglie inseguendo quel suo insano ideale di famiglia felice.
(Nella foto d’archivio Carlo Tabbia e Deborah Abate Zaro rispondono ai giornalisti subito dopo la lettura di sentenza di primo grado che condanna Michele a 30 anni)