Un’assoluzione e una condanna. Si è chiuso così il processo per falsa testimonianza “gemmato” da quello per omicidio che aveva visto la condanna dei fratelli Betea per la morte di Georgev Gorancho a seguito di un pestaggio avvenuto il giorno di Pasquetta del 2014 nel cortile e poi nel garage del condominio di Castiglione Tinella dove vivevano.
Per il reato più grave, proprio nell’estate scorsa è diventata definitiva la condanna a 21 anni dei fratelli Adrian e Valentin Betea, il primo ancora latitante, il secondo arrestato in Germania mentre si stava probabilmente recando in Romania, Paese di origine della famiglia.
Ma altri guai erano nati dalle dichiarazioni dette in aula da due testimoni a loro difesa: Marco Cacciabue (amico di famiglia) e Giulia Luvio (infermiera cognata degli imputati).
Quello che loro riferirono su quanto ricordato di quel tragico pomeriggio, è sembrato così illogico al pubblico ministero Greco da indagarli per falsa testimonianza. Nel nuovo processo, cui erano presenti come parti civili di nuovo la vedova Gorancho e i suoi figli (alcuni dei quali, all’epoca ancora bambini, assistettero al pestaggio del padre) assistiti dall’avvocato Gianluca Bona, è stata ripercorsa la sequenza dei fatti di quel pomeriggio già funestato da incursioni reciproche al culmine di un conflitto di vicinato che andava avanti da tempo. Secondo l’accusa, Cacciabue e la Luvio avevano reso testimonianze “addomesticate” che favorissero la posizione dei fratelli Betea. Soprattutto in riferimento al momento più violento, quello in cui i due hanno colpito al capo Gorancho dopo averlo rinchiuso nel garage. Per Cacciabue, difeso dagli avvocati Patrizia Gambino e Daniela Icardi, il giudice ha dettato una sentenza di assoluzione. Luvio è stata invece condannata a 3 anni di reclusione e ad un risarcimento danni da quantificarsi in separata sede ma con una provvisionale complessiva di 20 mila euro a vedova e figli di Gorancho.
La donna, alla lettura della sentenza, ha rifiutato la pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità perché ha chiaramente intenzione di fare ricorso contro la condanna.
(Nella foto la vedova Gorancho e la figlia maggiore all’epoca del processo di primo grado)