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Tatuaggio: storia di un linguaggioche racconta chi siamo
Cronaca

Tatuaggio: storia di un linguaggio
che racconta chi siamo

Che i tatuaggi incuriosiscano questo è indubbio: che si amino o no trasmettono qualcosa all’occhio di chi li vede, perché sono un linguaggio. Articolato, simbolico, ancestrale, trasgressivo e

Che i tatuaggi incuriosiscano questo è indubbio: che si amino o no trasmettono qualcosa all’occhio di chi li vede, perché sono un linguaggio. Articolato, simbolico, ancestrale, trasgressivo e trendy, il tattoo si riconferma un argomento attuale. Oggi è diventato una sorta di “griffe”, uno strumento d’identificazione che dal singolo sta toccando la massa. Dalla nicchia in cui spesso si nascondevano i tatuati, ora si sta massificando sotto gli occhi di tutti. E allora perché ci si tatua? Un tempo, per le popolazioni primitive, era segno d’integrazione sociale. I maori della Nuova Zelanda, per esempio, usavano tatuarsi il viso per la distinzione di rango. Il disegno, chiamato “moko”, rendeva l’individuo unico e inconfondibile, come le impronte digitali. In effetti, le origini del tatuaggio sono antichissime: lo testimonia la “mummia di Similaun” (Otzi), trovata negli anni ’90 sulle Alpi: è datata 5300 anni fa e riporta un tatuaggio sulla schiena.

Il termine deriva da “ta-tau” che in polinesiano significa “segno sulla pelle” ed è stato introdotto in Europa nel Settecento dall’esploratore inglese James Cook, di ritorno da uno dei suoi viaggi intorno al Pacifico. Tatuarsi è sinonimo di decorazione, traccia un’appartenenza, un bisogno di fissare sulla pelle qualcosa che fa parte di noi e in cui c’identifichiamo al punto da volerlo far diventare un segno indelebile. Interessante è anche la zona scelta in cui si decide d’incidere il tatuaggio: per esibirlo si scelgono parti in vista, al contrario, invece, se è una scelta più intima, lo si cela nelle zone nascoste. La sensibilità della pelle su cui disegnare con l’ago è soggettiva, anche se pare che sulle spalle faccia meno male: l’anatomia del corpo può valorizzare alcuni disegni, come la ragnatela che sembra perfetta sulla curvatura del gomito.

Sono lontani i tempi in cui il tattoo era cosa di malavitosi, carcerati o marinai. Il tatuaggio è sempre stato un modo per dire le cose o per dare un’immagine personalizzata di sé, magari per affermare la propria identità: di solito, comunque, ciò che spinge a tatuarsi è la necessità di scolpire un’emozione vissuta. E’ curioso, infatti, pensare come oggi, nell’epoca più forte della crisi economica e sociale, dove regna l’incertezza e non si riesce a immaginare un futuro, coincida il boom della tendenza del tattoo, quasi a voler esorcizzare la precarietà del momento con gesti definitivi e senza tempo. Ci si tatua a qualunque età, dai 14 agli 80 anni (per i minori è necessario il consenso dei genitori), tanto gli uomini quanto le donne. Anche la professione non sembra essere un parametro distintivo, lo fa l’avvocato come l’operaio: a differenza del passato, il tatto non è più un indicatore del ruolo sociale, le leve che spingono a tatuarsi sono ben altre.

Ci si tatua uno scarabocchio, una frase, una scritta giapponese, un’immagine “old school” (cuori, pugnali, rose e ancore), visi dall’atmosfera gotica e dark, illustrazioni e grafiche tribali. Da tratto distintivo e di protezione (come nella cultura marinara e per i popoli antichi birmani), da talismano contro spiriti maligni (Nord Africa), a elemento di virilità o di erotismo nei popoli del Borneo, fino a diventare vezzo d’abbellimento e segno di gerarchia familiare per la civiltà maori; più tardi arriva anche in Giappone dove assume a pieno il titolo di forma d’arte, estesa in tutto il corpo. La professione del “tatuatore” e l’apertura delle botteghe nascono nel XIX° secolo: fu un newyorchese, Samuel O’Reilly, a inventare la macchinetta elettrica intorno al 1880. A distanza di due secoli il tatto continua più di prima: ad Asti fanno tendenza le scritte, l’old school rivisitato 2013, le fusioni di stile e le scritte giapponesi.

Roberta Arias

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