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A caccia di Bin Laden, quasi un’ossessioneper l’agente CIA Maya
Cultura e Spettacoli

A caccia di Bin Laden, quasi un’ossessione
per l’agente CIA Maya

Per dieci anni, da quell’11 settembre ormai consegnato alla storia come uno dei momenti di svolta della storia recente, gli Usa hanno dato la caccia a Osama Bin Laden. A raccontare la vicenda che ha

Per dieci anni, da quell’11 settembre ormai consegnato alla storia come uno dei momenti di svolta della storia recente, gli Usa hanno dato la caccia a Osama Bin Laden. A raccontare la vicenda che ha portato alla sua eliminazione è Kathryn Bigelow, prima (e unica) donna a ricevere il premio per la miglior regia agli Oscar. Il riconoscimento arrivò nel 2010 con “The hurt locker”, pellicola sulla guerra in Iraq; in un certo senso, la regista prosegue sul tema, aiutata in questo dallo stesso sceneggiatore, ancora Mark Boal.

“Zero dark thirty” nel gergo militare Usa indica una levataccia, ma anche l’ora compresa tra mezzanotte e le quattro in cui è preferibile compiere le incursioni. Ma non è tanto l’incursione in cui venne ucciso Bin Laden il fulcro del film, quanto piuttosto le indagini, le azioni di intelligence e gli interrogatori che portarono a essa, visti dal punto di vista dell’agente Cia Maya. Con tutto quello che ne consegue: già molti mesi prima della sua uscita, il nuovo lavoro della Bigelow è stato anticipato da polemiche che ne hanno fatto un caso cinematografico.

C’è chi l’ha accusato di apologia di tortura, di essere un film fascistoide. Ma c’è anche chi, come la Cia, ha accusato il film di esagerare sull’importanza data alle sequenze dove si applicano “tecniche di interrogatorio duro”. La verità, probabilmente, sta nel mezzo. Con in più il merito di aver posto una questione fondamentale: esistono casi in cui si possa giustificare uno stato che sfrutta simili metodi?

e.in.

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