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Un caffè con... Andrea Mirò
Cultura e Spettacoli

Un caffè con… Andrea Mirò

Le campane della Collegiata rintoccano mezzogiorno mentre con Andrea Mirò ?- arrivata apposta da Milano dove ormai vive stabilmente -? prendiamo posto nel dehor del bar "Lo Stregatto", su

Le campane della Collegiata rintoccano mezzogiorno mentre con Andrea Mirò ?- arrivata apposta da Milano dove ormai vive stabilmente -? prendiamo posto nel dehor del bar "Lo Stregatto", su piazza San Secondo: «Per me questo è un posto significativo poiché ci venivo in pausa pranzo dopo la scuola, l'istituto magistrale, e prima delle lezioni pomeridiane al Conservatorio di Alessandria. Il proprietario del locale conosceva molto bene mio papà che sapendomi qui era tranquillo. Per un genitore era importante avere dei punti di riferimento anche perché i telefonini con gli sms o WhatsApp non esistevano ancora e, nel caso avessi dovuto telefonare a casa, avevo a disposizione soltanto qualche gettone. Non parliamo di millenni fa ma come vedi è cambiato tutto da allora» mi dice accennando un sorriso e accendendosi una sigaretta. In effetti molte cose sono mutate, anche se i gettoni gialli con la riga in mezzo li ricordo pure io, così come pure le successive tessere telefoniche, delle quali facevo addirittura collezione. Cambia tutto velocemente intorno a noi ma ciò che non passa per l'intervistata del "caffè con" di questa settimana è l'amore per la musica.

Cresciuta con le sette note
Quella per il pentagramma è un'autentica passione, nata prima del 1987 quando ancora per tutti era semplicemente Roberta: «Fu proprio agli inizi della mia carriera che con la Emi, la mia etichetta discografica del tempo, decidemmo di assumere il nome d'arte di Andrea Mirò ma io ho pensato da sempre di fare musica e di studiarla e conoscerla a fondo perché mi interessava acquisire i codici per capirne la scrittura, codici che nella musica pop-rock, ma anche in generale, non sono così scontati. Sai cosa ricordo della prima volta che sono entrata in studio di registrazione a Milano in quegli anni? Lo stupore e la meraviglia di qualcuno che mi guardava stranito per il fatto che io prendessi appunti e lavorassi sulla carta da musica, cioè che scrivessi le note sul pentagramma, cosa per me abbastanza naturale. Il fatto di cantare è stato poi un corollario arrivato solo successivamente».
Conoscere la musica prima di sognare di diventare famosa, insomma. O meglio, amare la musica, quindi comprenderla a fondo e solo come conseguenza diventare popolare e vivere della propria passione.
Tra le mura domestiche, Roberta è cresciuta ascoltando canzoni: «Della mia infanzia non ricordo niente che non sia legato al cantare o sentire canzoni. Mio papà Luigi, per tutti Gino, appassionatissimo di jazz, prendeva la Vespa da Calliano e andava a Torino o addirittura fino a Milano per comprare i dischi d'importazione. Mia mamma invece da melomane incallita amava sentire in radio ogni opera lirica e le conosceva tutte a memoria; pensa che al semplice ascolto riconosceva persino gli interpreti di ogni singola opera! Quindi noi -? siamo tre sorelle -? abbiamo respirato sin da piccoline questo clima, e pure nostro nonno, con un gruppo d'amici, andava nei paesi circostanti a cantare dal vivo. Era una sorta di "live juke box", una "radio itinerante" molto apprezzata dalla gente. Una realtà folcloristica e culturale che purtroppo si è persa».

Da Calliano a Castrocaro
Mentre sorseggio la mia spremuta d'arancia e lei smangiucchia un po' di finger food portatoci come aperitivo, capisco che da adolescente anche fuori casa Roberta ha avuto la fortuna di incontrare persone, come l'allora parroco di Calliano, che le hanno consentito di alimentare il suo talento: «Don Venesia faceva suonare me e le mie sorelle a messa con vari strumenti: c'era la batteria, il basso e una bellissima chitarra Gibson bianco e nera e io stavo ad un vecchio pianoforte con i tasti pesantissimi e questo mi ha permesso di accrescere ancora di più la passione per la musica e devo dire che quando ho detto ai miei genitori che volevo iscrivermi al Conservatorio, ho avuto la grossa fortuna di essere appoggiata da loro in questa mia scelta, estremamente ponderata e voluta. E comunque ciò rappresentava un impegno sia per me che dovevo conciliare lo studio scolastico con le lezioni del Conservatorio "Vivaldi" ad Alessandria e sia per loro a livello economico e organizzativo perché, per darti l'idea, c'era da pagare l'abbonamento del treno e della corriera e poi se perdevo il pullman da Asti per Calliano dovevo prendere il treno fino a Castell'Alfero e qualcuno dei miei doveva venirmi a recuperare alla stazione».
A 19 anni, ancora da studentessa del "Vivaldi", Roberta ha l'opportunità di calcare il suo primo palco davvero importante: «Presa la maturità alle magistrali avevo più tempo a disposizione per il Conservatorio, dove frequentavo le lezioni del settimo dei dieci anni di studio e non vedevo l'ora di terminarlo. Un giorno il mio compaesano Massimo Visentin, che aveva uno studio di registrazione proprio vicino a casa mia, mi propose di iscrivermi alle selezioni di Castrocaro 1986 con il brano "Pietra Su Pietra" scritto da Roy Urschler, un autore di origini svizzere, e io accettai. Dopo vari provini andati bene, arrivai alle finali nazionali e, in maniera davvero inaspettata, vinsi quell'edizione di Castrocaro guadagnandomi di diritto la partecipazione nei giovani al festival di Sanremo dell'anno successivo. Fui risucchiata in un autentico vortice, tra interviste e tour promozionali in giro per l'Italia, e poi c'era pure il lavoro in studio per preparare Sanremo e crescere musicalmente. Nonostante sia stata sul palco dell'Ariston parecchie volte, come interprete, come musicista ed anche come direttrice d'orchestra, devo dirti che non ci si fa mai il callo. Ogni volta provo un certo pathos, un'adrenalina che credo sia assolutamente necessaria. Il giorno che non dovessi più avercela, se dovesse mai succedere, sarebbe forse meglio che mi mettessi a fare un altro mestiere».

La vita con Enrico
Roberta convive da anni con Enrico Ruggeri, suo compagno di vita e padre del piccolo Ugo (dieci anni) ed Eva (cinque). Con due genitori così, è abbastanza naturale che i fanciulli abbiano già un'attitudine musicale: «I miei figli sono nella condizione di essere circondati da strumenti musicali e strumentazioni varie. Eva è intonatissima e, per l'età che ha, è molto dotata al piano. Ugo altrettanto, ma a me non interessa doverli per forza "instradare". Voglio dire, finché non c'è una richiesta esplicita di fare il mestiere mio e del papà non capirei proprio perché spingerli a tutti i costi. L'unica cosa che penso è che la musica faccia bene comunque, anche se poi nella vita faranno un altro lavoro».
L'incontro con Ruggeri risale al 1996 quando il cantautore milanese stava cercando nuovi componenti della sezione ritmica della sua band e venne colpito dalla versatilità musicale e dal particolare timbro vocale di Roberta: «Ci siamo conosciuti lavorando e avendo un background piuttosto simile come ascolti musicali ed impronta artistica. Le molte cose in comune e le affinità elettive ci hanno poi avvicinato anche nella vita privata».
Un sodalizio che ha dato frutti anche sotto il profilo artistico: «Enrico mi ha insegnato tante cose e musicalmente ci siamo regalati tanto. Io gli ho dato ciò che so della musica, soprattutto la parte più tecnica, e di scrittura; lui mi ha aiutato a capire la parte strutturale del lavoro, cioè l'impostazione di questo mestiere e la comprensione delle varie dinamiche. Poi, beh, siamo due artisti che vivono nella stessa casa e quindi quando uno scrive una cosa la fa generalmente ascoltare all'altro e l'altro con molta sincerità dice che è una cagata ?- perdona il francesismo -? oppure che è bella e che quindi si può sviluppare. Tra noi non c'è assolutamente nessuna intenzione di compiacere, altrimenti cadrebbe il legame».

Bartolo Gabbio

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