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I partigiani visti da una bambina: «Ci facevano giocare con la polvere da sparo»
Cultura e Spettacoli

I partigiani visti da una bambina: «Ci facevano giocare con la polvere da sparo»

A quale bambino, oggi, sarebbe concesso giocare con la polvere da sparo ottenuta svuotando una bomba a mano perfettamente funzionante? Ovviamente a nessuno, ma settant'anni fa era un gioco comune sulle nostre colline. O almeno lo era sulle colline abitate dai partigiani. Al di fuori dalle ricostruzioni storiche e politiche e dei ricordi dei partigiani e di chi gli anni della Seconda guerra mondiale li ha vissuti con piena cognizione di causa, raccontiamo come…

A quale bambino, oggi, sarebbe concesso giocare con la polvere da sparo ottenuta svuotando una bomba a mano perfettamente funzionante? Ovviamente a nessuno, ma settant'anni fa era un gioco comune sulle nostre colline. O almeno lo era sulle colline abitate dai partigiani. Al di fuori dalle ricostruzioni storiche e politiche e dei ricordi dei partigiani e di chi gli anni della Seconda guerra mondiale li ha vissuti con piena cognizione di causa, raccontiamo come quella stessa guerra e la convivenza con i partigiani venga ricordata da chi oggi ha ottant'anni e all'epoca era una bambina.

La testimonianza è quella di Maria Capello, 80 anni fra un mese, madre di chi scrive. Viveva con i genitori, Michele e Severina, la sorella minore Erminia e i nonni al Bricco Capello, in una lunga cascina su una collina fra Capriglio e Mondonio, frazione di Castelnuovo don Bosco. Un posto isolato, difficilmente accessibile e facilmente difendibile; poco più in là la Cascina Astorre (in dialetto La Stù), scelta dal comandante "Milan" come sua base. A qualche mese dal loro insediamento, "Milan", il commissario "Guerra" e gli altri partigiani avevano anche realizzato un tratto di telegrafo clandestino che partiva dall'Astore per arrivare ad una cascina nei pressi del concentrico di Capriglio. Con pali più bassi del bosco che attraversavano, erano riusciti a realizzare un impianto sulla cresta della collina che consentiva di tenersi in contatto con gli alti comandi. «Dormivano nella stalla e la sala di casa era tutta per loro ?- racconta Maria Capello -? imbracciavano sempre armi cariche e le porte non potevano mai essere chiuse a chiave, perchè loro dovevano poter entrare e uscire velocemente in ogni momento. Per nascondere le armi e le munizioni, mio padre aveva costruito una fossa profonda 2 metri sulla riva di casa che veniva chiusa con delle fascine di rami ricoperte da terra e poi da sfalci di potatura.»

Quella era solo una delle fosse che circondavano la cascina.«In un'altra fossa si nascondeva il grano per sottrarlo alla contabilità degli ispettori fascisti dell'Annonaria che facevano pagare le tasse sul numero di sacchi raccolti e poi ce n'era ancora un'altra dove mio padre nascondeva delle piccole botti piene di miele. Queste le nascondeva a tutti, all'Annonaria, ai partigiani e ai tedeschi per avanzare qualcosa per la famiglia». In tutti i mesi di convivenza con i partigiani, la bambina di 10 anni di allora non ricorda un solo episodio di violenza o di mancanza di rispetto nei confronti di qualcuno della famiglia. «Con noi bambini erano molto simpatici ed allegri, ci facevano giocare (con la polvere da sparo che veniva svuotata dalle bombe a mano e poi usata per fare dei "disegni" sul cortile cui veniva dato fuoco fra l'irresponsabile contentezza di tutti) e ci proteggevano. Mi ricordo di "Baracca", un frate altoatesino partigiano che ci scortava fino a scuola quando c'era sentore di qualche rappresaglia tedesca. Con noi a scuola veniva anche Giovanni, il figlio del Commissario "Guerra" e della moglie Lea. E poi, nei giorni di calma, ci raccontavano da dove arrivavano, delle loro famiglie. Ricordo "Tigre", partigiano figlio di un soldato della Prima Guerra Mondiale che aveva perso una gamba in battaglia e poi "Cesarino", "Papua", "Foglia", "Ianes", "Cavagnin". I loro nomi di battaglia li conoscevamo tutti, ma quelli veri no. Di molti non li abbiamo saputi neppure finita la guerra».

Ma, nonostante la guerra fosse relativamente lontano da Capriglio, neppure i bambini rimasero immuni alle crudeli regole della Resistenza. «Un giorno i partigiani tornarono con un prigioniero tedesco. Visse per molte settimane da noi e non lo uccisero perchè volevano scambiarlo con partigiani prigionieri. Lo obbligarono a scavare le buche per i pali della linea elettrica che arrivò dopo il telegrafo clandestino e quando tutti dovevano andare via in missione, allora lo legavano nella nostra stalla e noi bambine andavamo a dargli da mangiare e da bere, ma nessuno si sognava di liberarlo». Quelle colline fra Bricco Capello e Cascina Astore furono anche la tomba di almeno tre morti per mano dei partigiani. «Uno era una spia che aveva venduto tanti nomi ai fascisti. I partigiani gli spararono nel bosco dietro casa e lo seppellirono lì. Fino a quando io ho abitato lì non mi risulta che i parenti siano venuti a riprenderselo. Invece fummo proprio io e mia madre ad indicare ai famigliari dove trovare due fascisti che erano stati fucilati e sepolti. Io conoscevo bene dove erano stati sepolti perchè i partigiani avevano messo due croci di legno sopra le buche e noi bambine, mentre portavamo le mucche al pascolo, passavamo di lì e posavamo un mazzolino di fiori, per pietà».

Nel ricordo della bambina di Bricco Capello anche il coraggio del padre, Michele, durante i due rastrellamenti tedeschi, avvenuti in inverno. «Ci facevano uscire tutti: donne, bambini e vecchi restavano in cortile mentre il capofamiglia entrava in casa con i tedeschi durante il controllo. I partigiani erano già fuori da ore, avvertiti da "Lena", la staffetta di Mondonio che diventò moglie di uno dei partigiani, "Piero". Quando il comandante della squadra di rastrellamento chiese a mio padre se dava da mangiare ai partigiani lui rispose: «Certo che lo faccio, loro si presentano con i fucili carichi come voi, come faccio a dire di no?». Una risposta così coraggiosa e onesta al tempo stesso da spiazzare i tedeschi che la incassarono senza conseguenze. E che, ogni volta, se ne andavano sempre con sacchi e ceste piene di uova, pane, salumi, vino. Una razzia cui i contadini erano abituati e che contrastavano come potevano nascondendo in giro il cibo per la propria famiglia. «Ma c'era una cosa che io adoravo dei partigiani -? ricorda ancora Maria -? ed era che avevano sempre dei libri che mi prestavano: a me piaceva tantissimo leggere. Fra i libri che ho letto anche quelli che mi prestò un ebreo nascosto in paese dal parroco di allora, don Fassone, che lo aveva vestito con una tonaca trovata in sacrestia in modo da poterlo presentare come suo aiuto. L'ebreo passava tutte le sue giornate passeggiando per il paese, vestito da prete con un libro in mano che fuori aveva la copertina delle Sacre Scritture, ma dentro era scavato nelle pagine e conteneva un altro libro».

La notizia dell'imminente liberazione non era stata condivisa dai partigiani con i loro ospiti contadini. «Mai saputo nulla. Qualche giorno prima i partigiani sono andati tutti via e il 25 aprile li abbiamo rivisti in valle, a bordo di camion che cantavano e urlavano, con le bandiere al vento "La guerra è finita". Dopo qualche giorno sono tornati a salutarci e con mio padre sono rimasti in relazione per anni dopo la guerra». Ricordi ancora nitidi, dopo settant'anni, mai incrinati dalla paura e dal terrore che una guerra sanguinaria come quella di Liberazione potrebbe far pensare. «Non ci siamo mai resi conto di cosa significasse realmente tutto quello che stavamo vivendo. Eravamo dei bambini, i partigiani non ci facevano del male, i tedeschi neppure e noi ci sentivamo protetti dai nostri genitori. L'età, l'innocenza e l'incoscienza ci hanno salvati. Ma se ci penso ora, mi rendo conto che abbiamo rischiato la vita ogni giorno passato con i partigiani in casa».

Daniela Peira

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