«Nella mia vita ho avuto modo di perseguire due vizi capitali. Il primo è rappresentato da disegno e pittura, il secondo dalla musica. Ma mentre la musica ti mantiene eccitato, la pittura e il disegno danno una tranquillità molto piacevole».
Così il grande cantautore astigiano Paolo Conte, protagonista di una lunga carriera che l’ha portato ad essere conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, ha parlato della sua passione per l’arte figurativa oggi pomeriggio (martedì) al Teatro Alfieri di Asti. Ne ha parlato in riferimento alla mostra “Paolo Conte. Original”, che sarà visitabile da domani (mercoledì) al 1° marzo a Palazzo Mazzetti, composta da 143 opere a sua firma, realizzate dagli anni Cinquanta fino a qualche anno fa, e come tale la più grande esposizione a lui dedicata in Italia e all’estero (per saperne di più clicca qui).
Intervistato dalla giornalista del Corriere della Sera Roberta Scorranese e affiancato dalla curatrice della mostra Manuela Furnari, il Maestro ha parlato di fronte ad una folta platea che ha aderito all’incontro ad invito, affascinando il pubblico grazie al suo stile arguto, elegante e garbatamente ironico. Presenti, oltre alla famiglia (dalla moglie Egle al fratello Giorgio) e al suo staff (in primo luogo la manager Rita Allevato) anche tanti amici, tra cui Caterina Caselli, oltre a numerose autorità locali.
La tecnica pittorica
«La mia tecnica pittorica – ha spiegato – è semplice. Le mie sono tutte opere su carta e ho sempre lavorato su un piano orizzontale. Soltanto quando era stata organizzata la mostra al battistero di San Pietro ad Asti, quando ero Maestro del Palio, sono stato obbligato a lavorare in posizione verticale, peraltro utilizzando olio su acrilico.
In questa mostra, poi, espongo tantissimi lavori che avevo realizzato per l’opera “Razmataz”, questa mia follia, un musical in cui ho fatto tutto da solo: ho scritto la storia, i testi, i dialoghi, composto 28 brani di musica e realizzato 1800 illustrazioni. Poi espongo altri disegni che avevo conservato nei cassetti, risalenti agli anni Cinquanta. Ne ho trovato certi che non sfigurano rispetto a quelli successivi. Ne approfitto per segnalare che, per fare compagnia la pubblico che andrà a visitare la mostra, piuttosto lunga, ho inserito tanti titoli per aiutarlo a concentrarsi sui significati delle opere. Titoli che a volte sono un po’ malandrini, curiosi e spiritosi, per cui prego chi andrà a visitare l’esposizione di soffermarvisi perché potrebbe ricevere un po’ di aiuto».
La mostra
L’intervistatrice ha quindi sottolineato come la mostra unisca “tanti Paolo Conte” diversi, protagonisti di arte visiva, musica, titoli, aforismi. «Se c’è un aspetto che accomuna il Paolo Conte musicista, compositore, poeta e sperimentatore del visivo – è intervenuta Manuela Furnari – è il fatto che sfugge da ogni rigida catalogazione. Una categoria che gli appartiene nel profondo è l’originalità, il fatto di essere unico e fedele solo a se stesso. Per questa mostra si è quindi fatta una selezione rigorosa, ma al tempo stesso sorprendente, per cercare di esprimere quel gusto assolutamente singolare del Maestro, sotto la sua stessa guida e il suo sguardo autentico, inimitabile, appunto “original”. Con una avvertenza, e qui riprendo le parole del Maestro: lasciare al pubblico la libertà massima di immaginazione».
Il rapporto con la pittura e la musica
Roberta Scorranese ha quindi domandato al Maestro se è rigoroso nella pittura come lo è nella musica. «Molti di questi disegni – ha affermato – sono stati realizzati in fretta perché dovevano anche raccontare una storia (il riferimento è alle illustrazioni dell’opera “Razmataz”, ndr). D’altra parte, forse, non ho la pazienza nel dipingere che ho invece quando compongo musica. E’ una questione di lotta contro il tempo. Ad un certo punto la pittura mi basta, mentre la musica spesso mi trattiene. Mi viene da dire che quando la mia mano si stanca di me è ora di smettere».
Il colore alle note
Il discorso si è poi allargato all’aspetto visivo che c’è nella sua musica, al colore che dà alle note. «E’ una cosa personalissima», ha ammesso. «I colori che attribuisco alla scala musicale sono quelli che vedo io, ma un’altra persona può vedere tutt’altro».
Dopo aver citato i colori scelti («Per me il do è bianco sporco, il re bemolle nero, il re naturale marron…»), Conte ha parlato dell’amore che ha provato fin dall’infanzia per il trattore, che ha interessato le sue due passioni per la musica e la pittura. «Mio nonno – ha raccontato – aveva una tenuta in campagna dove io stavo ore ad ascoltare, nel prato, il vicino che arava col trattore. Quando si avvicinava, sentivo i suoni metallici. Poi, man mano che si allontanava, sembrava emettesse un muggito che per me era meraviglioso, qualcosa di arcano e divino. Lì ci sentivo la musica, era il cristallizzarsi nella musica. Anche nella pittura, come Picasso, per dirne uno (ride, ndr), ho avuto diversi periodi. Il primo è stato appunto quello del trattore, perché ne ero appunto innamorato. Poi c’è stato quello dei cavalli da tiro, delle donne nude e dei suonatori di jazz. E mi sono fermato lì».
Il riferimento al trattore ha dato quindi lo spunto per parlare di jazz. «E’ un discorso che ho fatto tante volte per spiegare la frase “Le donne odiano il jazz” di una mia canzone. Ho sempre utilizzato questo paragone. Gli uomini, guardando un’auto, si interessano alle parti meccaniche. Le donne, invece, guardano il lato estetico. Allora, io dico: ascoltando il jazz si deve godere dello scheletro della musica, smontarla, andare dietro alla ricerca dei segreti e dei movimenti dinamici. Alla donna, però, piace la musica dolce, almeno così era ai tempi della canzone e della mia gioventù. Ora a dire il vero meno, le donne sono diventate scopritrici di scheletri. Comunque è così. Nel jazz bisogna guardare dentro, non accontentarsi delle prime impressioni. Un tipo di ascolto difficile che non tutti si sentono di fare».
Il riferimento al cinema
Si è poi parlato della sensibilità del Maestro verso il cinema. «Paolo Conte – ha spiegato Furnari – è un artista visivo, per cui il cinema gli appartiene nel profondo. In mostra abbiamo due sale: una multisensoriale sulla canzone “The black queen”, uno dei brani centrali di “Razmataz”, inserita in un video che comprende anche i relativi disegni; e un’altra che propone un estratto di 5 minuti dell’opera».
A quel punto il Maestro ha preso a sorpresa la parola per rivolgere un invito pubblico accompagnato da un sorriso piacevolmente sornione: «Se c’è un produttore che volesse investire in “Razmataz” si può benissimo trasformare in cinema…».
La città di Asti
Infine, una domanda su come Paolo Conte vede la città di Asti.
«E’ una città – ha affermato – in cui si comunica poco. Non ci sentiamo tanto collegati gli uni con gli altri. Per di più è, per le sue origini agricole, abbastanza primitiva, tagliata con la scure, e qui sta il suo bello. Non ci sono mezzi termini, non c’è niente di leccato, di sofisticato. C’è proprio la voglia di “stare sul pezzo”».
«Tornando al jazz, Asti è, in proporzione, la città che ha avuto più suonatori di questo genere musicale in Italia. Una scelta professionale coraggiosa anche dal punto di vista economico, perché il jazz non ha mai reso tanto, ma che rispecchia le certezze antiche, le cose arcane tipiche delle città. Anche il paesaggio è così. Paesaggio che non ho mai affrontato nella pittura, ma solo nelle canzoni. E questo perché ero stimolato a cercarvi la parte etnica, lo spirito. Come ho scritto nel mio brano, Bartali entrava in un mondo di cose dette e non dette, ma già sapute, come se le divinità del luogo avessero già spiegato qualcosa”.