The Last Dance: recensione di un successo globale
Grazie allo straordinario successo di pubblico, “The Last Dance”, la docu-serie di Netflix che ripercorre lo storico doppio “three peat” dei Chicago Bulls sei volte campioni NBA, è senza alcun dubbio uno dei capolavori cinematografici del 2020. Un racconto sportivo di dieci ore, suddivise in dieci puntate da sessanta minuti ciascuna, perfettamente plasmato. Attraverso flashback, testimonianze dirette e momenti inediti di vita di spogliatoio, lo spettatore è in grado di capire appieno quanto sia difficile la vita di uno sportivo di successo, ancor più quella di un leader. La serie è incentrata sul personaggio Michael Jordan. Il mitico numero 23, il più forte cestista della storia, una star a tal punto globale da venire riconosciuta più grande addirittura del marchio NBA. MJ e i Bulls sono stati il veicolo dell’espansione del basket americano, che in quegli anni, i mitici 90’s, ha definitivamente aperto i suoi confini, televisivi e a livello di merchandising, a tutto il mondo.
“I want to be like Mike”, recitava la conosciutissima campagna pubblicitaria di Gatorade che lo aveva scelto a icona, ma in queste dieci ore di filmati risulta evidente come sia complesso vestire i suoi panni e gestire la pressione per un campione. Jordan, ossessionato dalla competizione, Jordan, a tratti provocatorio e sgradevole con i compagni, per spingerli oltre i loro limiti, Jordan, che ha lasciato temporaneamente l’NBA dopo la morte del padre, e che che è stato investito dalle polemiche inerenti alla sua “passione” per il gioco d’azzardo. Jordan, che non ha mai espresso opinioni politiche e razziali, perché le Nike le comprano tutti, e che finalmente ieri ha fatto sentire la sua voce dopo la morte di George Floyd.
In “The Last Dance” viene narrato con dovizia un capolavoro sportivo: sei titoli in otto anni, tre consecutivi e altri tre dal 1996 al 1998, un risultato difficilmente ripetibile. Il numero 23 è “the goat”, Phil Jackson, colui che di anelli da coach ne ha vinti 11 (più due da giocatore), il coach e perfetto gestore dello spogliatoio, sapendo governare caratteri speciali, come quello di Rodman, che poco prima di vincere il sesto titolo si è concesso una fuga per combattere su un ring di wrestling. Il fidanzato di Madonna e Carmen Electra, ma anche un atleta capace di dare tutto se stesso in campo. I Bulls hanno vinto grazie a MJ, che segnava 35 punti di media in partite che finivano sotto i 100 (a differenza dell’NBA di oggi), ma anche grazie a Scottie Pippen. “Nessun vuole essere Robin”, recita la canzone di Cremonini, e proprio per questo “Pip” va elogiato: imprescindibile per i successi dei “tori” dell’Illinois, mai abbastanza sotto i riflettori, nemmeno nella serie.
Non sono mancate le polemiche dopo l’uscita della serie: sono giunte critiche da Horace Grant, la possibile “talpa” che rivelava i problemi di spogliatoio, da Sam Smith, l’autore del libro “The Jordan Rules” che tempo fa creò scompiglio. Carl Malone, il “Postino” sconfitto in finale nel 1998, ha sottolineato come “quei Bulls” non fossero solo Jordan; lo stesso Michael si è contraddetto, negando di aver letteralmente “tagliato” dal primo Dream Team del 1992 Isiah Thomas, storico avversario e guida dei Pistons. La figura del gm Jerry Krause, scomparso pochi anni fa, non è stata sufficientemente elogiata: piccolo e obeso, antipatico, viene dipinto come colui che distrusse il giocattolo perfetto, ma fu anche colui che lo creò. “The Last Dance” è jordan-centrico, a tratti assume i contorni di un film (un po’ romanzato). Perché? Perché MJ è forse ancora oggi più grande dell’NBA: le sue lacrime, sdraiato a terra esausto dopo la vittoria dei suoi Chicago il giorno della festa del papà, sono l’immagine più vera ed emozionante di una serie che, al netto delle querelle, è di successo.
Davide Chicarella