In memoria di Serafino Ferraris
Se n’è andato in un caldo pomeriggio di mezza estate, nell’ atmosfera rarefatta del generale agosto che normalmente vede le persone lontane e distratte dalle ritualità vacanziere. La notizia della sua scomparsa, inaspettata nonostante si sapesse che da tempo non stava bene, ha scosso profondamente l’animo di quanti l’hanno conosciuto, ex alunni e colleghi, suscitando una commozione non scontata, ma intrisa di autentico rimpianto, come succede quando se ne vanno persone speciali. E speciale Ferraris lo era veramente: per la scuola astigiana – in particolare per i due istituti, l’Alfieri e il Vercelli, dove ha lavorato – ma, più in generale, per la vita culturale e civile della città. Commozione e ricordi sono tanto più intensi per chi, come me, insegnante del Liceo classico Alfieri, l’ha conosciuto prima come professore e poi come preside.
Al Classico Ferraris era arrivato non ancora trentenne, dopo un breve tirocinio all’Istituto Artom; il preside Barberis, evidentemente conscio della qualità della sua preparazione, gli assegnò sin da subito l’insegnamento al triennio liceale (circostanza invero assai insolita in quanto i giovani insegnanti di lettere, una volta entrati all’Alfieri, dovevano farsi le ossa per un periodo più o meno lungo nel ginnasio). Noi lo incontrammo nell’autunno del 1976, in prima liceo , come insegnante di latino e greco; eravamo reduci da un percorso ginnasiale non certo riposante ma, tutto sommato, “nella norma”.
Con la dovuta gradualità, ci dovemmo confrontare con le regole ferree del suo insegnamento che presupponevano uno studio rigoroso e costante e frequenti verifiche collocate a breve distanza l’una dall’altra e non necessariamente rispettose dell’alternanza fra le due materie (in altri termini, se si veniva interrogati di latino non era affatto detto che l’interrogazione successiva fosse di greco). Monitorare periodicamente le conoscenze acquisite e rielaborare in maniera autonoma i contenuti erano requisiti irrinunciabili: col tempo sarebbero diventati strumenti fisiologici del nostro percorso di apprendimento.
La comprensibile prospettiva di trarre qualche vantaggio dalla sua menomazione fisica durò solo qualche giorno, il tempo di capire che andare alla cattedra con il libro aperto non serviva assolutamente a nulla e non solo perché se ne accorgeva, ma perché le sue domande non miravano alla mera ripetizione di concetti, ma ponevano problematiche correlate al confronto critico e all’interpretazione personale. E, benché privo della vista, in realtà lui sapeva vedere meglio di chiunque altro e distinguere perfettamente la fisionomia di ciascuno di noi, non solo per quello che sapevamo o per come traducevamo, ma soprattutto per la nostra lealtà verso l’istituzione scolastica oltre che, ovviamente, nei suoi confronti.
Certo, un professore così non ti rendeva la vita facile e, in effetti, un po’ tutti noi dovemmo fare i conti con periodi più o meno lunghi di scoramento e di crisi, soprattutto durante il primo anno. C’erano buoni motivi per non amarlo, ma, alla fine, si finiva soprattutto per ammirarlo. Come si poteva non ammirare uno che, dopo aver sentito leggere una sola volta periodi lunghi e complessi di Demostene o di Tacito (tanto per citare due autentiche ‘bestie nere’ dei liceali di ogni epoca ) li ripeteva senza perdere una parola e poi con disinvolta maestria? E che sapeva tirare fuori dai poeti e scrittori letti in classe il loro significato più profondo, facendoci intendere come gli antichi abbiano saputo cogliere tutte le categorie fondamentali della natura umana che i moderni, in fondo, hanno semplicemente reinterpretato adattandole alla loro epoca?
Forse per questo, quando arrivava l’agognato mese di giugno, oltre ad immergerci nel simulacro di perfetta felicità rappresentato dalle vacanze estive, ci sentivamo anche orgogliosi di noi stessi per aver superato un’autentica gara ad ostacoli e soddisfatti per avere sostenuto le esigenti richieste del nostro professore, che ci stava allenando a prove ben più ardue . Da adolescenti non era facile capirlo , ma più tardi tutti noi ci siamo resi conto di come, anche attraverso le sudate sui paradigmi o sui versi di Euripide, Ferraris ci avesse fatto intendere l’importanza dell’impegno e del sacrificio , ingredienti indispensabili del merito e del successo. Questi valori la scuola non può permettersi di ignorarli, se non vuole ridursi ad una delle tante fate morgane con cui, nella follia consumistica dei nostri tempi, soprattutto ai più giovani, si fa passare l’idea che tutto sia a portata di mano senza sforzo.
Con il preside Ferraris mi sarei incrociato circa dieci anni dopo, ormai insegnante di lettere classiche, anche se non ancora di ruolo, in virtù di una reciproca attraction fatale, scandita da due episodi abbastanza singolari, ma assai indicativi. Il primo fu una sua telefonata che mi raggiunse a Monaco di Baviera dove mi trovavo per svolgere studi di perfezionamento all’Università; con un misto di meraviglia e di impazienza mi chiese cosa stessi facendo lì, quando , vista la disponibilità di cattedre, avrei potuto insegnare nella mia vecchia scuola. Gli risposi che ero oltremodo lusingato (e lo ero davvero), ma che per il momento non potevo soddisfare le sue aspettative: ero in Germania con una borsa di studio e poi c’era anche il servizio militare…
Il secondo avvenne alcuni anni dopo, allorquando, decisi di licenziarmi dal Collegio S. Giuseppe di Torino – scuola privata sì, ma prestigiosa e, almeno a quei tempi, abituata a pagare gli insegnanti praticamente come lo stato – pur di riprendere il rapporto con il mio vecchio professore. Scelta azzardata, perché non avevo la sicurezza di lavorare l’anno successivo, ma stavolta non mi sentivo di deluderlo. Ora lui faceva un mestiere diverso, assorbito in mansioni amministrative e gestionali ogni giorno più ampie e complesse che qualche volta gli facevano rimpiangere l’antico insegnamento. Ma la dedizione e l’attaccamento al lavoro erano gli stessi di prima. legato quindi ai docenti che era solito accogliere al mattino del lunedì in sala professori per salutarli e ricordare i principali impegni della settimana e per i quali la porta del suo ufficio era sempre aperta.
Di lui ho avuto modo di apprezzare l’attaccamento all’identità della scuola, ma anche il coraggio di introdurre innovazioni imposte dal cambiamento dei tempi; una su tutte – potrei però citarne molte altre- lo smantellamento dell’insegnante chioccia di lettere costretto ad insegnare cinque materie in un’unica classe, una figura che, a seconda delle persone, poteva costituire un punto di riferimento insostituibile oppure un’autentica iattura. Non sempre ero d’accordo con certe sue posizioni (solo gli idioti o gli ipocriti la pensano sempre allo stesso modo), ma non ho mai smesso di vedere in lui una guida sicura ed affidabile.
Lasciò il Classico all’inizio del nuovo millennio, al momento dell’accorpamento con il “Sella”; pochi giorni prima di andarsene mi confessò il suo profondo dispiacere nel congedarsi dalla “sua” scuola, ma l’idea di dover guidare una nuova realtà ‘ibrida’, costituita da due istituti così diversi non lo convinceva; pertanto aveva deciso di passare allo Scientifico, l’altro liceo ‘storico’ della città, le cui dimensioni lo ponevano al sicuro da futuri accorpamenti. Qui Ferraris avviò e proseguì il suo magistero per oltre un decennio, trovando il modo di farsi debitamente apprezzare, certamente non meno di come aveva fatto da noi. Questa però è una storia che non posso raccontare io…
All’ Alfieri però era rimasto affezionato e non mancava di ritornarci di tanto in tanto, in occasione di qualche evento pubblico, l’ultimo, in ordine di tempo, il corso di geopolitica tenuto dal prof. Graziano, ex alunno della nostra scuola, organizzato per altro in collaborazione con il Liceo Scientifico, di cui è stato attento ed attivo fruitore.
Caro Prof Ferraris, solo ora, nel momento dell’addio, ti darò del tu (prima non mi sarei mai osato). Grazie per quello che mi hai e ci hai regalato, come insegnante e preside ma, soprattutto, come uomo; la tua figura appartiene per molti aspetti ad una scuola che oggi non esiste più ma il tuo esempio serve ancora a quella di oggi e servirà anche a quella del futuro, perché non esiste un futuro plausibile se non sa recepire i frutti seminati in passato. In perpetuum, optime magister, ave atque vale. Tibi sit terra levis.
Alfredo Poli, docente Liceo Classico “Vittorio Alfieri”
2 risposte
Le sentite e toccanti parole del Prof.Poli mi hanno fatto ritornare alla mente gli insegnamenti, scolastici ma soprattutto di vita, dell’Ottimo Professor Ferraris.
Sono stato un Suo allievo negli anni del liceo e, seppur purtroppo solo saltuariamente, ho avuto il privilegio di sentirLo e frequentarLo anche successivamente quando, ultimato il percorso scolastico, ho intrapreso la libera professione.
Inutile ricordare che il Prof.Ferraris era una persona speciale, dalle raffinate capacità didattiche e, soprattutto, dalle rare capacità umane: aveva sempre pronta una sentita e sincera parola di conforto e, per molti di noi, Suoi ex allievi che abbiamo avuto il privilegio di frequentarLo, è stato un vero e proprio Maestro anche di vita.
È con tanta tristezza che vivo quest’ultimo commiato: caro Professore, la Sua dipartita ha lasciato un vuoto incolmabile ma, non dubiti, il Suo ricordo rimarrà sempre indelebile nella mia memoria e nelle mie preghiere.
Con gratitudine e riconoscenza.
Avv.Riccardo Marinetti.
Ho frequentato il liceo classico di Orvieto (TR) “F. A. Gualterio” tanti anni fa e anche se non sono stato un
eccellente studente ne ho un bellissimo ricordo.
Anche se non ho conosciuto per ovvi motivi il Professor Ferraris sono convinto dai commenti elogiativi dei suoi colleghi e ex studenti che sia stato un ottimo docente perché i propri professori si sanno apprezzare anche e non solo quando si è lasciata la scuola superiore.