I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino, nelle motivazioni della sentenza, scrivono chiaramente che «Michele è il maggior accusatore di se stesso» riferendosi, nello specifico, alle tante versioni date sul ritrovamento degli indumenti della moglie, Elena Ceste
Sessanta pesantissime pagine d’accusa quelle che rappresentano le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Torino contro Michele Buoninconti.
E non poteva andare diversamente, visto l’esito del processo, conclusosi con la conferma piena e totale della condanna già inflitta in primo grado ad Asti dal giudice Amerio: 30 anni, il massimo possibile per chi, come Buoninconti, ha scelto il rito abbreviato.
Ma nelle ragioni che hanno spinto i giudici togati e quelli popolari a non credere ad una sola parola di quando detto dalla difesa Buoninconti, hanno avuto un peso rilevante, forse più che nella decisione di primo grado, le contraddizioni dell’uomo e il suo profilo comportamentale.
In un passaggio, i giudici scrivono chiaramente che «Michele è il maggior accusatore di se stesso» riferendosi, nello specifico, alle tante versioni date sul ritrovamento degli indumenti della moglie, Elena Ceste, la stessa mattina della scomparsa della donna, il 24 gennaio del 2014.
Continua la lettura sul giornale in edicola, o acquista la tua copia digitale
Daniela Peira