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La battaglia degli albanesi in Italia per andare in pensione

Non è mai stato firmato un accordo con l’Albania così non vengono riconosciuti gli anni lavorati in patria. Condannati a lavorare fino a 70 anni

La “quota 100” è stata una delle opportunità più rincorse negli ultimi due anni da chi doveva lasciare il mondo del lavoro ed andare in pensione.
Un’opportunità che, però, a parità di anni lavorati e di diritto costituzionale acquisito, ha tenuto fuori una parte di cittadini italiani. La loro unica “colpa” è quella di essere nati in Albania e di aver iniziato a lavorare in patria.
A causa della mancata firma di una convenzione bilaterale Italia-Albania per il riconoscimento figurativo degli anni lavorati in Albania solo per l’arrivo della pura anzianità lavorativa senza nessun onere a carico dello Stato che permetterà loro di andare in pensione in Italia solo per gli anni lavorati in Italia e in Albania solo per gli anni lavorati in Albania.

Giorgio Rubolino
Giorgio Rubolino

A raccontare questa stortura è Giorgio Rubolino, nato in Albania da padre italiano e fra i coordinatori astigiani del gruppo “Diaspora 91-19” che raccoglie gli albanesi che vivono in Italia.
«Nella sola provincia di Asti, questo problema tocca circa 250 albanesi – spiega Rubolino – Si tratta di persone che sono arrivate qui con le prime ondate di migranti e che avevano già diversi anni di lavoro e di contributi in Albania. In Italia, quella generazione, per la maggior parte ha trovato lavori umili e di grande fatica, prevalentemente nell’edilizia, nell’agricoltura e, le donne, come badanti o domestiche».
Non tutti sono stati subito regolarizzati ma molti sono poi arrivati a contratti normali con il versamento dei contributi, che, però, non possono essere sommati, in termini di annate, con quelli già lavorati in patria.
«Vogliamo sgomberare il campo da ogni equivoco – specifica Rubolino – nessuno di noi vuole dallo Stato italiano una pensione cui non ha diritto o soldi in più di quanti versati. Vorremmo solo che fosse consentito sommare gli anni di lavoro in Italia con quelli in Albania per arrivare all’età pensionabile e smettere di lavorare sui tetti e ponti in edilizia, su catene di montaggio, in campagna e come badanti con l’età sopra ai 62 anni. Poi ognuno di loro prenderà quanto spetta dal sistema di previdenza italiano e quanto spetta da quello albanese. Ma almeno può smettere di lavorare».
Invece succede che molti, non solo non hanno potuto accedere a “quota 100” perché gli anni lavorati in Italia non sono sufficienti sommati all’età anagrafica, ma hanno prospettive di lavorare fino a 70 anni.
«Considerando che, come detto, si tratta di lavoratori con impieghi gravosi, usuranti e pericolosi, è una condanna a non riposarsi mai. Perché anche se sulla carta non risultano – dice Giorgio Rubolino dando una efficace immagine della situazione – sulle spalle, sulle gambe, nelle mani delle persone quegli anni ci sono eccome, e pesano».
Gli albanesi che vivono ad Asti stanno conducendo una battaglia istituzionale per vedere riconosciuti anche gli anni lavorati in Albania. Nell’estate, quando era possibile incontrarsi seppure a distanza, si sono ritrovati sotto Diaspora 91-19 anche il Centro culturale albanese “Madre Tersea” di Asti, l’Assoalbania Piemonte e l’Ancifra (Ass. naz. Cittadini italiani e familiari rimpatriati dall’Albania) per siglare una lettera inviata direttamente al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Chiedono il suo intervento per firmare l’accordo sottolineando quanto sia inspiegabile che l’Italia abbia sottoscritto analoghe convenzioni con Paesi come gli Stati Uniti o il Canada che certo contano meno cittadini sul suolo italiano di quanto non siano gli albanesi e poi con tutti i paesi dei Balcani ma con l’Albania no.

L’assemblea di Diaspora 9119 di questa estate ad Asti

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