A giugno 2014 l’arrivo del primo gruppo
Sono passati esattamente sei anni da quando i primi ragazzi sono arrivati, spaventati e disorientati in quel fazzoletto di colline immerse nel verde ma lontano dal resto del mondo. Un posto senza un negozio, senza un bar, con una linea di bus al mattino e una a metà giornata.
Il posto è Capriglio e i ragazzi sono i profughi che dal giugno del 2014 hanno trovato in Casa Mamma Margherita, ostello ricavato dalla ristrutturazione della canonica parrocchiale, il luogo in cui rinascere dagli orrori che non avrebbero diritto di entrare in vite così giovani ed inesperte.
Da casa di accoglienza a centro Sprar
Nata come centro di accoglienza, negli anni Casa Mamma Margherita si è trasformata in progetto Sprar, oggi denominato Siproimi che riguarda i profughi che hanno già ottenuto lo status di rifugiato politico e intraprendono un percorso di integrazione sociale e lavorativo.
L’Unione dei Comuni chiede la proroga
Proprio nei giorni scorsi l’Unione dei comuni Alto Astigiano ha chiesto la proroga del progetto Sprar Siproimi per altri due anni, spostando al 2022 la scadenza che ora è invece fissata a dicembre di quest’anno. Se il Ministero l’accetterà, verrà pubblicato un nuovo bando per la gestione del periodo di proroga.
Quello che il Ministero dovrebbe sapere è che se da altre parti d’Italia ci sono state tensioni e difficili convivenze, in quella zona del nord astigiano si è compiuto un mezzo miracolo in questi sei anni.
La diffidenza dei primi tempi
Innegabili le diffidenze dei primi tempi, quelli in cui i ragazzi in pochi giorni hanno saturato i 25 posti a disposizione arrivando a piccoli gruppi. Scendevano dalle auto della cooperativa BMA che li gestiva con le loro pochissime cose. Qualcuno è arrivato scalzo: ha attraversato mezzo mondo, fra deserto e mare e ha risalito l’Italia senza neppure un paio di ciabatte ai piedi.
Sono passati circa 300 richiedenti asilo
In questi sei anni sono stati circa 300 i ragazzi che hanno “ruotato” intorno a Casa Mamma Margherita. All’inizio gli arrivi riguardavano prevalentemente cittadini pachistani poi sono arrivati gli africani e poi ancora iracheni e siriani.
Il percorso verso l’accoglienza e l’accettazione
Mediatori culturali, insegnanti di italiano, volontari, operatori della cooperativa hanno fatto da ponte fra i ragazzi e la piccola comunità che poco per volta ha imparato a voler bene a quelli che potevano essere i loro figli o i loro nipoti. Le diffidenze si sono dissolte, qualcuno ha continuato a mantenere una distanza non belligerante, altri si sono avvicinati a loro in alcune occasioni di incontro (anche culinario) e hanno cominciato a portare abiti, coperte, biciclette.
Intanto i ragazzi hanno fatto quello che hanno potuto per integrarsi, per capire come si vive in questo angolo di mondo, per studiare la lingua e imparare un mestiere, sempre pronti a rendersi disponibili come volontari per iniziative dei residenti.
Ogni lingua del mondo nell’ex canonica di Capriglio
Nell’ex canonica di Capriglio si è parlato in ogni lingua: italiano, inglese, francese, arabo, urdu, pashtun, spagnolo, portoghese.
Poco per volta i ragazzi sono stati abbastanza bravi da dare gli esami alla scuola italiana e poi hanno frequentato corsi e diplomi e sono diventati giardinieri, panettieri, cantonieri, braccianti, magazzinieri, mediatori culturali per quelli che sono arrivati dopo di loro.
Molti, una volta ottenuti i documenti di soggiorno, sono stati assorbiti dalle loro comunità di origine in Italia o in Europa mentre altri si sono fermati sulle colline e hanno trovato lavoro.
In tanti hanno trovato lavoro regolare nella zona
C’è chi fa il panettiere nel forno di Mondonio, chi fa il bracciante nell’azienda biologica, chi il magazziniere nel supermercato di zona, chi il cantoniere per qualche comune, tanto per fare alcuni esempi.
Vivono nelle famiglie che danno loro lavoro oppure in alloggi che condividono con connazionali e sanno di poter contare su una rete di persone del posto che hanno deciso di “adottarli” e di proteggerli riconoscendo istintivamente gli orrori che li hanno separati dalle loro famiglie e dai loro Paesi d’origine. E che li difendono dagli attacchi di razzismo, mai sopito, di chi li considera dei parassiti senza sapere che spesso sono instancabili lavoratori e leali collaboratori.