Riceviamo e pubblichiamo
Quest’anno con una guerra in Europa, vedendo quella povera gente che fugge, si dovrebbe pensare al tempo in cui anche noi ci trovammo, per colpa dei dittatori, a patire le loro sofferenze. Così ho deciso di festeggiare questo giorno con il racconto delle peripezie di una ragazza di appena 17 anni che dovette far leva su tutto il suo coraggio, per aiutare i suoi amici durante una guerra fratricida.
Nicolina Soave, nata a Santo Stefano Belbo, è stata staffetta partigiana nei due anni di guerra civile che ha insanguinato la nostra Patria. Oggi ha la bella età di 96 anni, la sua mente lucida ricorda tante delle disavventure passate durante il suo impegno resistenziale e sentendo le notizie di una guerra non può che piangere.
Oggi, con il suo spirito patriottico tenuto caro nel cuore, ricorda gli antichi amici a cui si sentiva legata fraternamente. Bastava uno sguardo tra di loro per leggervi lo stesso ardore di voler cambiare il mondo pronti, anche, a donare la vita. Questo sentimento, così tenace e indescrivibile, Nicolina confessa di non averlo più provato in alcun frangente della sua vita.
Nicolina è l’ultima di quelle donne straordinarie e coraggiose da non dimenticare: avevano preso parte alla lotta per liberare la Patria da una feroce dittatura e dal crudele occupante tedesco. Sono state vere eroine, angeli senza volto, pronte ad agire nell’ombra per sostenere i bisogni dei compagni patrioti, portare ordini ed armi passando inosservate tra mille insidie dove altri avrebbero incontrato la morte.
Terminata la guerra hanno chiuso quel capitolo e le loro gesta sono cadute nell’oblio. Proseguirono la loro vita famigliare cercando, forse, di dimenticare quelle sofferenze e quei tempi bui. Non credeva di sentir parlare di guerra e le sovviene suo padre, Antonio, un fiero antifascista che aveva, in ogni modo, cercato di aiutare quei giovani disperati i quali dovevano nascondersi per non combattere più per Mussolini e Hitler.
Antonio non tollerava le imposizioni della dittatura, era diventato taciturno e non andava più in paese. Non voleva assistere alle pagliacciate, ai soprusi, agli “oli di ricino” fatti trangugiare, le bastonate e alle fucilazioni cui ogni cittadino, solo per un sospetto di essere dissenziente, soggiaceva. Quell’aiuto durò poco perché si accorse di essere sorvegliato. Nicolina, appena entrata nell’adolescenza, si era sentita in dovere di prendere il suo posto per aiutarli diventando staffetta.
L’inizio era stato quello di accompagnare quei ragazzi fuori dal pericolo, trasmettere messaggi, scrivere manifesti inneggianti alla rivolta sulla carta del pane con pezzi di carbone che, con le amiche, attaccava ai muri di notte.
In quel tempo senza pietà, a mano a mano che le formazioni aumentavano di numero, per lei l’impegno si allargò ad altre mansioni come procurare dei farmaci, bende e tutto quel che serviva per i feriti. La farmacista sapendo a chi servivano quegli acquisti era ben felice di aiutare donando molto materiale.
Una volta, andando verso Canelli per portare una pistola, arrivata al posto di blocco del Dente dovette fermarsi all’alt dei repubblichini. Erano ragazzi giovani che l’avevano fermata più per fare quattro parole scherzose che per dei sospetti. Il cuore le batteva forte ma mantenne la calma e finse di accettare la loro corte sorridendo alle loro battute per non metterli in allarme. Ad un certo punto, abbassando lo sguardo, si accorse che la canna dell’arma stava facendo capolino verso lo scollo del vestito. Cercò di fare qualche movimento per farla scendere e, con la scusa di dover andare da una parente malata, se la filò.
La madre Margherita, non aveva mai accettato l’impegno politico di Nicolina e del padre; viveva nel terrore che succedesse qualcosa di grave. Era una donna che la pensava all’antica ma, più di tutto, era il grande affetto che provava per loro che la rendeva pavida. Un giorno, suo padre, venne arrestato e, mentre i repubblichini gli mettevano le manette, lei si era gettata in ginocchio per supplicarli di non farlo. Il suo amore di moglie devota le fece fare un gesto che il padre disdegnò. Fu un’onta per il suo orgoglio di militante e, in quel momento, avrebbe preferito morire.
L’indomani lo avevano rilasciato, era stata solo una mossa intimidatoria. Antonio, in quel frangente, aveva mantenuto una freddezza sconosciuta offeso dal suo gesto era stato per diversi giorni senza rivolgere parola a sua moglie cosa assai rara…
Un’altra volta le due donne erano andate con la grossa cesta dal fornaio a cuocere il pane. Al ritorno la madre aveva incominciato a lamentarsi per il peso soverchiante della cesta. Ogni momento la posava e sospirava.
Il segreto lo conoscevano solo il padre, la figlia ed il panettiere, il quale, sul fondo della cesta, aveva nascosto uno Sten smontato che, la sera, i patrioti avrebbero ritirato.
Margherita, scoprendo quel sotterfugio, per sfogare la rabbia l’aveva ripetutamente rimproverata con parole molto aspre, non per il pericolo che aveva corso, ma per la paura che provava per i due complici.
Nicolina una volta era in attesa sulla cima della collina che guarda verso la valle Bormida, in un luogo chiamato San Poncio, e, finalmente, aveva visto sulla cresta di rimpetto profilarsi la fila indiana di figure oscure che camminavano ingobbite e col passo stanco. Erano quelli che aspettava, i compagni partigiani. Si era seduta in attesa.
Quelli erano i ragazzi della banda di Lenin, un tipo sicuro e spavaldo, che sapeva andati a San Marzano all’attacco contro un nemico molto agguerrito.
La battaglia a San Marzano Oliveto era stata terribile, contro un gran numero di fascisti che non avevano previsto. La lotta senza tregua era durata a lungo lasciando sul campo morti e feriti, ed ora si ritiravano. Avevano lasciato i corpi dei morti stesi sul bordo della strada insanguinata.
Ci avevano messo diverso tempo a raggiungerla e, vederli così abbattuti, le provocò una stretta al cuore. Il silenzio era assoluto e non ci furono parole, ognuno era immerso nei suoi pensieri. Quando Lenin le fu accanto si lasciò cadere per terra col volto nell’erba alta e scoppiò in un pianto dirotto; così singhiozzando senza vergogna fecero anche gli altri compagni. A poco a poco smisero di gemere, ma non si mossero e rimasero così, come svuotati di ogni sentimento e di linfa vitale.
Quell’immagine in bianco e nero la colpì profondamente e li accompagnò al nascondiglio sicuro. L’indomani non riusciva a cancellarla dai suoi pensieri. Erano giovani, inesperti della vita, chiamati ad un compito più grande di loro, come avrebbero potuto competere e vincere la battaglia così male armati, senza scuola militare, senza rifugi sicuri di riferimento, con tante spie pronte a venderli al nemico?
Nicolina, alcuni di quei giovani, li aveva salutati un triste giorno sul freddo marmo della camera mortuaria del cimitero di Canelli dove era accorsa di nascosto da tutti e li aveva salutati per l’ultima volta. Erano i cinque ragazzi del Falchetto trucidati mentre, inconsapevoli di una spiata, facevano colazione in un boschetto. Vennero colpiti vigliaccamente alla schiena. Due di loro li aveva accompagnati la sera prima verso il bosco che portava lontano sulla collina nel covo. Scendendo aveva sentito un presentimento mentre una folata gelida di vento l’aveva turbata, quel fremito non lo poté scordare.
La mattina presto erano già morti e buttati nella polvere davanti al bar centrale del paese di Canelli per dare una lezione a chi avesse osato osteggiare la dittatura. In seguito li avevano portati al cimitero. Tre erano per terra e gli altri due, quelli che aveva accompagnato, giacevano sui tavolacci di marmo. In quel momento era impietrita ma senza timore di un nemico così spregevole.
Uno dei due era venuto da Torino accompagnato da sua madre: glielo aveva consegnato piangendo e facendogli mille raccomandazioni di stare attento. La famiglia Soave aveva tentato di consolarla, sicuri che non gli sarebbe successo nulla di male. Il distacco era stato straziante come se fosse stata l’ultima volta e quella si era rivelata essere l’implacabile realtà.
Quante lacrime amare erano state versate e quanto sangue innocente…
Nicolina era disillusa, senza più speranza trovava inutile il sacrificio di quei morti e decisa a farla finita col suo impegno di staffetta. Sola e disperata cercò consolazione dal padre che adorava ed era l’unico che l’avrebbe capita. Col suo esempio lei aveva fatto la difficile scelta di correre in soccorso ai suoi amici, a soli diciassette anni, per sollevarli dalle pene e portare notizie, documenti, a volte perfino armi e bombe.
Lo raggiunse nell’orto dove stava zappando, si sedettero uno accanto all’altro sulla panchina di legno e gli confidò la sua amara decisione di ritirarsi. Lo vide impallidire, muto, stupefatto, forse deluso. Rimasero così un po’ di tempo, pensierosi. Il padre era il suo mito, lei sapeva leggergli negli occhi i pensieri, sapeva quanto stava soffrendo per una ventennale dittatura che umiliava il popolo, succube di un tedesco folle che aveva trascinato l’Italia in una guerra invisa che si era trasformata in guerra civile.
Il padre le cinse le spalle col suo braccio protettore e, pianamente, incominciò a parlarle come quand’era bambina e la consolava per le ginocchia sbucciate: “Bambina mia, capisco quel che provi, perché lo provo anch’io. Sei così giovane e ti trovi trascinata in questo turbine terribile che è la guerra. Questa è la guerra, non conosce pietà! Travolge ogni cosa, con la guerra tutto è perduto!”
Antonio aveva gli occhi lucidi per l’impossibilità di trovare una via d’uscita. Anche lui amava quei partigiani che, affamati, andavano di notte per un pane, un piatto di minestra ed un bicchiere di vino. Se li sarebbe tolti di bocca per vederli ripartire ristorati; erano tutti suoi figli. Quelle parole la scossero nel profondo e provò il rimorso per averli voluti abbandonare ma, in fondo al cuore, sapeva che non avrebbe mai potuto farlo. Era stato un attimo di scoramento ma nessuna corda avrebbe potuto legarla tanto stretta per impedirle di compiere il suo dovere accanto a loro e sapeva che il padre avrebbe approvato.
Erano riusciti a sbaragliare il nemico e stabilire la Repubblica Partigiana ma era durata poco e, con l’arrivo dell’inverno sempre infausto per i partigiani data la mancanza di fronde, erano sotto il tiro nemico. Dovettero fuggire e nascondersi nelle tane delle colline o fuggire lontano. Per colpa di una spia il 7 gennaio con la sua compagna furono arrestate e condotte nelle carceri di Canelli per essere interrogate. Sotto il presidio della Muti, i feroci repubblichini, presero a interrogarle ma, al loro silenzio, le condussero ad Asti. Qui le prigioni erano dirette dai tedeschi e ancora negarono di essere staffette. In ultimo le trasferirono a Torino nelle carceri Nuove. Era inverno, faceva un gran freddo, la cella era stretta e buia, la paura serrava il loro cuore e la mente veniva assalita da cupi pensieri. Appena riusciva a penetrare un raggio di timido sole sui muri leggevano i nomi di chi le aveva precedute, a volte scritti col sangue. Quelle povere persone avevano vergato messaggi struggenti e tragici che facevano immaginare la triste fine a cui erano andati incontro. Rimasero in quel luogo per almeno un mese e mezzo.
Erano disperate, agghiacciate, arrabbiate e senza un futuro. Sulle loro vite si profilava la condanna a morte nei lager tedeschi. Nei primi giorni di febbraio era previsto un convoglio diretto in Germania che era già colmo di prigionieri. Sul successivo fu deciso che sarebbero salite anche loro. Nel frattempo gli americani avevano incominciato a bombardare il Brennero e distrussero gran parte dei binari. I tedeschi avevano finalmente capito che era molto vicina la loro disfatta. L’unico loro pensiero era stato di ritirarsi immediatamente inseguiti dai partigiani che erano diventati la loro ossessione. Il terrore degli attacchi li aveva spinti ad una ferocia mai vista. Bruciavano case, fucilavano gente comune: bambini, vecchi e donne senza pietà. Bruciavano paesi interi: il loro disegno criminale non trovò nessuna pietà.
A seguito di questi avvenimenti, inaspettatamente Nicolina a l’amica vennero liberate. Volarono alla stazione e salirono sul primo treno per allontanarsi il più possibile dai tanti pericoli che incombevano sulla gente. Per raggiungere il paese affrontarono mille peripezie e molta strada la percorsero a piedi nella neve alta. Tuttavia non era ancora finita perché ormai la conoscevano e dovette fuggire a Torino presso una zia. Là non le restò altro che entrare tra le file del Comitato di Liberazione e venne assegnata al gruppo di Andreis, grazie ai sui dossier. Aveva ricevuto gli ordini di prendere contatto con un uomo di riferimento: costui doveva presentarsi con un giornale in mano e con una scatola di fiammiferi di legno che fuoriuscisse dal taschino. Mentre attendeva venne importunata da un tale che l’aveva infastidita molto anche per l’ansia che provava in quel momento così delicato. Quando era riuscita a liberarsene, la stessa persona di mezz’età, era ritornata coi segni di riconoscimento. Comprese così che l’aveva voluta mettere alla prova, con quello stratagemma; era facile cadere in qualche imboscata.
Disse di chiamarlo Gigi e da quel giorno avevano sempre agito insieme. Lui era quello che le portava i volantini ed i giornali della stampa clandestina da distribuire. Le loro testate erano “L’Unità, l’Avanti, Il grido di Spartaco, Italia libera, L’opinione, Il partigiano alpino”.
Nicolina aveva il compito di distribuirli alla gente senza lasciarsi scoprire. Nel suo piccolo covo poté mantenere ogni segreto e quel posto diventò la centrale di smistamento, all’insaputa di tutti.
Anche grazie a questi collegamenti partigiani venne il giorno della Liberazione…Si prevedeva già, ma quando s’incominciò a sentire sferragliare i camion tedeschi e le loro colonne che si dirigevano velocemente fuori città si capì che la guerra era finita. Era la fine d’aprile il tempo era tiepido e lei uscì correndo sul corso ancora incredula.
Venne a prenderla Gigi con una ragazza che si chiamava Anna. Erano in bicicletta e lui la fece salire sulla canna poi, pazzi di gioia, incominciarono a girare per la città cantando “Bella ciao”. Raggiunsero quello che oggi si chiama Corso Matteotti dove sorgeva l’alto comando tedesco; salirono gli scaloni di corsa prendendo due scalini per volta. C’era un silenzio di tomba, ovunque regnava il deserto. Per la grande frenesia di vedere se veramente il sogno era diventato realtà, non presero alcuna precauzione. Ripensandoci poteva esserci ancora qualche cecchino o qualche ritardatario che avrebbero potuto ucciderli. Raggiunsero il salone da pranzo delle mense ufficiali da cui si sprigionava un profumino allettante e la più grande meraviglia fu di vedere il lusso di quelle tavole imbandite. Tovaglie candide di Fiandra, bicchieri di fine cristallo e piatti di Limoges, stoviglie così ricche non le avevano mai viste, erano ancora colme di cibi mai più consumati dalla povera gente. Certi piatti erano pieni, altri a metà. Quei cibi ancora fumanti li invitavano dopo tanta fame subita in quegli anni.
Quei prepotenti ufficiali che li avevano invasi, calpestati e disprezzati erano fuggiti frettolosamente lasciando la città libera.
Il giorno dopo quei locali vennero invasi dai partigiani provenienti da tutte le parti con le insegne dai più svariati colori che, insieme, avevano lottato ed ora si abbracciavano piangendo.
La gente invadeva le strade osannando alla vittoria, parevano impazziti e, ancora increduli, si abbracciavamo piangendo di gioia e di dolore per chi avevano perso durante quel difficile cammino. I tre amici erano mischiati alla folla cantando gli inni partigiani e gettando, nell’aria tersa di quell’aprile che non si potrà dimenticare, i giornali ed i volantini che il venticello portava in alto come farfalle.
Gianna Menabreaz