Allibiti, ammutoliti, increduli, smarriti. Immediatamente dopo, quando abbiamo capito che la notizia era vera, addolorati: un dolore intenso, profondo, fisico. È vero che il giorno prima, quando hai impartito quella che sarebbe stata la tua ultima benedizione pasquale, ci sei apparso tanto affaticato; poi, però sei sceso in piazza sulla Papa Mobile, contento tra la folla, accarezzando le testine di tre piccoli. Allora ci siamo detti che no, eri di nuovo tu, stanco, ma sempre uguale. Te ne sei andato in una tiepida giornata di aprile, il lunedì della Pasqua dell’Angelo, ricorrenza che ricorda l’annuncio delle donne, giunte al Santo Sepolcro, trovato vuoto, dell’avvenuta Resurrezione di Gesù: una data che, quest’anno ha conciso con il Natale di Roma, la città di cui sei il Vescovo, la città in cui sono nata e cresciuta… un segno ritengo, non una semplice coincidenza!
La prima persona che ho chiamato è stato il nostro Vescovo al quale ho detto “Eccellenza, e adesso che facciamo?”. La risposta, semplice, ma potente “adesso non possiamo fare altro che pregare, Vittoria”. Già pregare; quante volte al termine dell’Angelus hai ripetuto di non dimenticarci di pregare per Te, ma anche per tutti coloro che soffrono a causa delle guerre, delle malattie, della povertà. E comunque ieri, durante le tue esequie, il Cardinale Re, un ragazzo di appena 91 anni, nel corso di quella che mi è apparsa una delle omelie più commoventi che ricordi da quando ho l’età della ragione, ripercorrendo la tua vita e il tuo Pontificato, ti ha esortato a pregare per noi. Lo ha fatto davanti a centinaia di migliaia di persone, davanti ai potenti della terra, convenuti per omaggiarti.
Chissà cosa avrai pensato quando li hai visti riuniti, vicino a Te; e chissà cosa pure avrai pensato vedendo due presidenti, uno di una nazione martoriata dalla guerra e l’altro del paese più potente al mondo, parlarsi, seduti uno di fronte all’altro, all’interno di San Pietro, con una postura da confessionale. Due anni e mezzo fa, quando sei venuto tra noi, nella terra da cui partirono i tuoi nonni e tuo papà alla volta dell’Argentina, sembravi un giovane che aveva ritrovato le sue radici, la sua casa di un tempo. Due giorni indimenticabili, in cui credo, tu abbia voluto riavvolgere il nastro, tornando indietro nel tempo, alla ricerca delle tue origini, peraltro mai dimenticate. Il giorno dopo la tua ripartenza per Roma, tutti, senza eccezione, compresi noi, chiamati a garantire i servizi di sicurezza insieme con i colleghi di Roma, ci siamo detti che, nonostante la fatica e la tensione, avremmo ricominciato da subito a lavorare per accoglierti nuovamente.
Ieri, quando a bordo della Papa Mobile hai lasciato San Pietro e hai attraversato Roma, per l’ultimo saluto, ti ho immaginato in piedi che salutavi la gente, la tua gente, mentre passavi nei luoghi più iconici della Città Eterna, la tua città. Ho immaginato l’Altare della Patria con il Milite Ignoto renderti gli onori militari; ho immaginato le statue degli imperatori romani chinare il capo mentre percorrevi via dei Fori Imperiali; mi è sembrato che il Colosseo si chinasse da un lato al tuo passaggio. Poi, arrivato alla basilica di Santa Maria Maggiore, ti ho immaginato scendere dalla Papa Mobile sulle tue gambe, con le scarpe consunte che ti hanno accompagnato per migliaia di chilometri, e prima di entrare, girarti e sorriderci, dicendo “Ciao ragazzi, io vado a riposare, ora tocca a voi”. Ora mi piace pensarti seduto ad una lunga tavola, insieme a tutti i nostri cari, ridendo e scherzando, ma sempre con lo sguardo rivolto quaggiù.
Ciao Franciscus, GRAZIE.
Vittoria Rissone