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Cronaca

Asti, al processo Barbarossa parla il padrino-pentito che ha raccolto confidenze in carcere

Stamattina ripresa l’udienza nell’aula bunker del carcere delle Vallette con le pesanti accuse nei confronti di un personaggio di spicco dell’indagine dei carabinieri astigiani

Ripreso dopo la pausa Covid

Si è finalmente tenuta oggi, nell’aula bunker del carcere delle Vallette di Torino, l’attesa udienza che ha visto testimoniare due collaboratori ‘ndranghetisti nell’ambito del processo Barbarossa. Rinviata due volte a causa dell’emergenza Covid, l’udienza ha visto in aula, a distanza di sicurezza, solo tre imputati in presenza e uno in collegamento con il carcere di Alessandria oltre ad una delegazione ridotta di difensori. Il trasferimento nell’aula bunker, inizialmente scelta per consentire le testimonianze in videoconferenza, per le udienze estive si è reso necessario per garantire il mantenimento delle distanze anticontagio.

Ex padrino della ‘ndrangheta

Ad aprire l’udienza sono state le dichiarazioni di Domenico Agresta, importante collaboratore di giustizia in quanto è stato a lungo “padrino” ed è nato in una influente famiglia calabrese.

Agresta, trasferito al carcere di Asti nel 2011, aveva raccolto le confidenze di Vincenzo Emma, soprannominato “Il Muto”, già detenuto nella casa di reclusione astigiana.

Per un mese nella stessa cella di  Vincenzo Emma

«L’ho conosciuto in carcere e ci siamo subito presentati come ‘ndranghetisti. Lui si è qualificato come “sgarrista”, un grado inferiore al mio di padrino. Abbiamo condiviso la cella per un po’ di giorni, forse un mese e lui mi parlò delle attività di estorsione ad un night, di una sua azienda di movimento terra, di spaccio di cocaina. Mi disse – ha riferito Agresta in aula – che la sua famiglia si era insediata ad Asti e si vantava di “comandare” lui ad Asti, comportandosi con me quasi da padrone di casa anche se eravamo entrambi detenuti».

Figura apicale del processo

Vincenzo Emma è uno dei personaggi di spicco del processo Barbarossa, ritenuto colui grazie al quale è potuta sbocciare la ‘ndrina fra Costigliole e Asti. Proprio la sua detenzione nel carcere di Asti avrebbe finalmente dato il via all’insediamento della cosiddetta “locale”.

Agresta ha ammesso di non aver mai verificato quanto gli veniva riferito da Emma «ma nessuno degli altri  detenuti ‘ndranghetisti ha mai messo in dubbio quanto lui mi ha detto nè si è mai levata voce che dicesse delle cose false solo per farsi vedere».

Il “galateo” dei detenuti ‘ndranghetisti

E proprio a proposito del carcere e delle sue regole, Agresta ha raccontato il “galateo” dei detenuti. «Quando si arriva in un carcere la prima cosa da fare è presentarsi a tutti gli altri ‘ndranghetisti detenuti e dichiarare il proprio grado, o meglio le proprie “doti”  all’interno della “società”. Individuando chi comanda e chiedendo a lui quali sono le “regole della casa”.

Obbedienza, fedeltà ma anche potere di sacrificare chi sta sotto

Dilungandosi poi in una spiegazione sommaria della gerarchia ‘ndranghetista, con le suddivisioni in “locali” che a loro volta si dividono in società minori e società maggiori in cui operano picciotti, sgarristi, camorristi e, ai gradi più alti, capi-santa, capi-vangelo, capi crimine. Una gerarchia dove l’obbedienza e la fedeltà è tutto ma dove si può sacrificare chi è di grado inferiore pur di proteggere la propria classe di grado di appartenenza. Dove spesso le dinamiche delle singole famiglie valgono più delle regole generali e dove i capi in realtà sono scelti da quelli che contano davvero ma non vogliono comparire pur continuando a comandare. E che sono anche quelli (pochi) che si godono i fiumi di soldi provenienti dalle attività illecite mentre tutti gli altri “tirano a campare”.

Mai sentito nominare la “locale” di Costigliole

Agresta non ha mai sentito parlare della “locale” o “bastarda” di Costigliole ma ha ammesso che per nascere,  qualunque forma venisse scelta, avrebbe avuto comunque bisogno dell’autorizzazione delle famiglie calabresi.

Una descrizione lucida e a tratti impietosa del mondo ‘ndranghetista in cui è nato e del quale ha fatto parte per diversi anni.

La scelta di collaborare con la giustizia

Ma perchè poi ha scelto di diventare collaboratore di giustizia?

«Sono stato condannato a 30 anni per omicidio e distruzione di cadavere – ha risposto – e in carcere ho cominciato a frequentare scuole interne, corsi di educazione civica, ho fatto colloqui con educatori, psicologi, ho studiato e letto molto e mano a mano che cercavo di farmi l’istruzione che mi era mancata da bambino, sono crollati quegli ideali in cui ero cresciuto e in cui avevo sempre creduto».

A questa è seguita l’altra deposizione del secondo pentito convocato in videoconferenza (vai all’articolo).

 

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