A pochi giorni dalla decisione della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso sull’assoluzione di Stefano Bagnasco, astigiano, per l’omicidio di Francesco Indino, l’ormai ex imputato, da uomo definitivamente libero, ci rilascia un’intervista.
Quasi dieci anni di vita con il sospetto di essere l’assassino del suo ex dipendente. Come è cambiata la sua vita dal giorno dell’arresto?
In realtà la mia vita è cambiata dal giorno della morte di Franco. Dal giorno dell’arresto il cambiamento è diventato ancora più evidente. E’ stato un periodo in cui ho perso di tutto e di più: il lavoro, la casa, la salute, la fiducia, la stima, le relazioni, i rapporti, persone e molto altro compreso quelli che ti invitavano a cambiare città o addirittura andare all’estero: ma perché dovevo scappare? Non avevo fatto nulla. Poi ti facevi forza e ti rimettevi in gioco ricominciando con entusiasmo a lavorare e, come una bomba ad orologeria, arrivava una nuova “irreale” comunicazione da parte della procura con successiva corposa esposizione mediatica che ti riportava a terra.
Poi è arrivata anche la sentenza di condanna di primo grado con tutti gli “accessori” compresi: la gente che ti evitava, il dover chiudere la mia attività di agenzia immobiliare perché chi comprerebbe casa da un assassino? Senza contare lo sciacallaggio da parte di alcuni colleghi (e voglio essere gentile). E via dicendo compreso l’ufficiale giudiziario per i pignoramenti per la provvisionale alla parte civile.
Per me i danni maggiori sono quelli che chiamo “danni collaterali”, cioè quelli che colpiscono te e i tuoi cari e non sempre e solo da punto di vista materiale. Mia sorella costretta a cambiare lavoro, i miei genitori che perdono amicizie perché il loro figlio è un assassino, amici che spariscono (ma quelli che sono rimasti sono da monumento), vedere di nascosto papà e mamma che piangono per te, sentirsi rifiutare l’apertura di un conto corrente per la tua attività perché non sei persona gradita, l’essere cacciato dal mondo associazionistico, essere in fila al supermercato e vedere gente che cambia cassa.
Con la sentenza della Cassazione, ad oggi, l’omicidio di Indino è un caso irrisolto e dovrebbero ripartire le indagini. Lei si è fatto un’idea di come siano andate le cose subito dopo che ha salutato Franco in Campo del Palio? Si è parlato tanto di quel debito che aveva con alcuni grossisti, gli stessi arrestati con lei nelle prime battute dell’indagine.
No. Non ho alcuna idea di come siano andati i fatti: diversamente ne avrei dato informazione durante le indagini o durante gli interrogatori o durante il processo. La speranza, per me e per tutte le persone che sono state coinvolte nella vicenda ma in primis per la famiglia di Franco, è che si riesca a far luce sulla vicenda individuando il vero responsabile o i responsabili. Quanto al mio debito verso Blandini ha ragione: se ne è parlato tanto. Forse troppo e anche a sproposito, perché, a conclusione della mia storia, si è chiaramente delineato, come ho sempre sostenuto, che erano solo chiacchiere e per di più inutili. Per inciso, quell’esposizione finanziaria del 2015, sempre citata e perennemente ripresa in ogni articolo, è stata regolarmente pagata e saldata fin dal 2016.
Un’auto come la sua in entrata e uscita da Piazza del Palio nei momenti dell’omicidio, i tappetini cambiati, le scarpe buttate, il suo ritardo quel giorno all’appuntamento con gli altri dipendenti, la sua agitazione di quel mattino riferita da alcuni testimoni. Per la Procura indizi univoci della sua colpevolezza che lei invece ha spiegato punto per punto. Quanto le è costato ricordare ogni particolare di quella mattina consapevole che una falla di memoria avrebbe potuto portare ad una condanna per omicidio?
Ogni rilievo che lei cita venne spiegato punto per punto. E, vorrei ricordarlo, le mie spiegazioni vennero integralmente condivise dal tribunale del riesame che nel 2017 annullò l’ordinanza di custodia cautelare e ordinò la scarcerazione, oltre che mia, di tutto coloro che all’epoca furono indagati.
Mi è sempre costato molto in termini emotivi e fisici per ogni udienza, per ogni comunicazione, per ogni articolo che usciva e poi ogni volta che qualcuno ti poneva delle domande. Questa la chiamiamo intervista ma in Procura si chiama interrogatorio con ritmi incalzanti e con quell’incipit che ti fa tremare le gambe: “Quello che dice, può essere usato contro di lei”. Appunto. “E se ricordo male o non ricordo?
In questi dieci anni, quale è stato il momento di maggior sconforto?
Non sono in grado di fare una classifica dei momenti maggior sconforto perché ce ne sono stati molti, forse troppi ma qualcosa voglio sottolinearlo.
Tremiladuecentocinque notti (proprio così, scritto in lettere perché le notti sono più lunghe dei giorni e a volte interminabili) praticamente insonni in cui ero solo con i miei pensieri, riflettendo sulla assurda situazione in cui mi trovavo. Tutto questo, notte dopo notte. Il giorno dell’arresto per aver visto i miei genitori ottantenni in mutande in cucina controllati dai poliziotti: un’immagine indelebile che mi provoca ancora un magone pazzesco. L’entrata in carcere, la schedatura, l’umiliazione dello spogliarsi nudi e la perquisizione corporale, il percorrere lunghi corridoi con porte che si aprono e si chiudono alle tue spalle, tu che perdi la tua identità.
La lettura della sentenza di primo grado ad Asti quando il giudice “in nome del popolo italiano” ti dichiara colpevole e ti condanna. In quel momento non ti crolla il mondo addosso ti crolla tutto l’universo, sempre perché non avevi fatto assolutamente nulla di quello per cui ti accusavano.
Mi spiace dirlo ma anche leggere i titoli e gli articoli di giornale, i cui contenuti non sempre hanno riportato correttamente la realtà delle cose: tante volte dopo la pubblicazione dell’articolo mi ritrovavo a non uscire di casa per giorni oppure andare a far la spesa in paesi vicino ad Asti perché mi vergognavo ad essere riconosciuto: senza aver fatto nulla.
E potrei continuare ma voglio anche dire che, tanti momenti di sconforto, oltre alla famiglia e agli amici è riuscito a farmeli superare la vicinanza professionale e amichevole di Alberto Avidano, il mio avvocato. Il suo credere nella mia innocenza fino a gridarlo in aula sono stati fondamentali per far emergere la verità che ci ha portato ad oggi.
C’è stato il momento in cui ha capito che sarebbe uscito innocente dal processo?
Non c’è stato un momento in cui ho capito che ne sarei uscito innocente: ci sono stati due momenti in cui lo hanno riconosciuto: alle 11.30 del 31 maggio 2023 alla lettura della sentenza della Corte di Assise di Appello di Torino e alle 14.30 del 3 aprile scorso quando l’avvocato Avidano mi ha telefonato, dicendomi “è finita”.
Ora che è tutto finito e che la giustizia ha riconosciuto la sua innocenza, si sente di dire qualcosa alla famiglia di Franco?
Certamente e mi farebbe piacere. Messi via i panni dell’imputato rientriamo in una sfera esclusivamente privata e, per il rispetto di tutti, tale voglio che rimanga.
Che ricordo personale ha di Franco Indino?
Ho tanti ricordi di Franco, anche se il tempo trascorso insieme non è poi stato molto ed è passato tanto tempo in maniera anche non serena. Le posso dire che ogni tanto mi viene in mente un qualcosa di ben preciso su cui si scherzava prendendoci in giro e naturalmente mi ritrovo ad abbozzare un sorriso forse più mentale che fisico: ecco anche questo vorrei rimanesse privato.