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Cronaca
Tribunale civile

Buoni fruttiferi postali: il tribunale di Asti condanna Poste Italiane a rimborsare anche gli ultimi 10 anni delle serie “O” e “P”

Su ricorso di madre e figlia che avevano sottoscritto un prodotto finanziario giudicato poi troppo “conveniente” e dunque ridimensionato

Un investimento in buoni postali fruttiferi di 5 milioni di lire fatto nell’agosto del 1988 che oggi ha consentito alle due sottoscrittrici, madre e figlia, di incassare poco meno di 50 mila euro. Non senza una certa fatica giudiziaria, va detto.

E’ sul loro caso che il Tribunale civile di Asti ha dettato la sua prima sentenza su un contenzioso fra risparmiatori e Poste Italiane in merito ai convenientissimi buoni fruttiferi della serie “O” e della serie “P” degli Anni Ottanta che garantivano interessi molti alti.

Così alti che il Governo, all’epoca guidato dall’astigiano Gianni Goria, nel 1986 emise un decreto con il quale cassò del tutto la serie “O”,  mentre per la serie “ P” dettò la stampigliatura, su fronte e retro, dell’aggiornamento dei rendimenti, molto meno convenienti di quelli originari. Poi diede il via libera  alla successiva serie “Q” meno allettante per i risparmiatori.

Un decreto che, evidentemente, non raggiunse, per anni, gli uffici postali più isolati della nostra penisola, tanto che per molto tempo i buoni della serie   “P” continuarono ad essere proposti dagli impiegati e ad essere sottoscritti dai risparmiatori senza la timbratura prevista dal decreto o con la timbratura solo su un lato dei buoni.

Fu proprio su dei buoni non “corretti” dal timbro che  madre e figlia di Santa Vittoria d’Alba   investirono i 5 milioni di lire in questo prodotto finanziario nell’agosto del 1988, due anni dopo il decreto ministeriale.

Al momento di riscuoterli, nel 2018, a trent’anni dalla sottoscrizione, si sono accorte che Poste Italiane aveva corrisposto gli interessi promessi e riportati nella tabella dal primo al ventesimo anno, ma non negli ultimi dieci anni.

In un primo momento, dunque, hanno riscosso 27.730 euro, ma a quel conto mancavano dieci anni.

Le due donne si sono affidate agli avvocati Alberto Rizzo e Fabio Scarmozzino e hanno fatto un primo ricorso all’Arbitro Bancario e Finanziario di Torino che ha dato loro ragione disponendo che Poste Italiane avrebbe dovuto corrispondere gli stessi interessi per tutti i 30 anni di investimento, non solo per i primi 20. Ma Poste Italiane non ha pagato e così è stato il giudice civile di Asti, il dottor Marco Bottallo ad essere chiamato a sentenziare.

Con una decisione che ha ricalcato le conclusioni già prese dall’Arbitro: Poste Italiane è stata condannata a pagare altri 20.800 euro per gli ultimi 10 anni.

Nelle motivazioni è chiara la ragione di tale sentenza: «I buoni emessi a partire dal primo luglio 1986 della serie “P” dovevano presentare due timbri: uno sulla parte anteriore con la dicitura “Serie Q/P” e l’altro sulla parte posteriore recante la misura dei nuovi tassi». Nel caso portato davanti al giudice dalle due donne «bisogna applicare gli interessi originari fino al trentesimo anno perché i buoni recano sì, sulla parte frontale, il timbro con la dicitura “Serie Q/P” ma sul retro non era presente il timbro dell’ufficio postale con la misura degli interessi modificata dal decreto ministeriale».

Per questo motivo madre e figlia si sono viste riconoscere altri 20.800 euro in aggiunta ai precedenti 27.730 già liquidati.

«Si tratta di una sentenza molto importante – spiega l’avvocato Alberto Rizzo, specializzato in cause di questo genere – perché sappiamo che sono tantissimi i risparmiatori in possesso di buoni liquidati non correttamente. E’ importante che chiunque abbia un buono postale emesso dopo il giugno del 1986 lo faccia esaminare per capire se abbia diritto a ricevere un importo superiore a quello corrisposto. Ci sono 10 anni di tempo per far valere questo diritto e anche se i buoni sono già stati riscossi e Poste Italiane ha trattenuto gli originali, i risparmiatori devono sapere che hanno diritto alle copie. Anche a distanza di tempo dalla riscossione».

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