«Io non ho mai voluto uccidere mio padre. Quelle frasi scritte sul mio diario erano uno sfogo della paura vissuta in quel momento e quel coltello comprato qualche ora prima era solo per difendere me e mia madre. Quando è stato ora di usarlo per sfuggire alle sue botte, era ancora dentro il blister di plastica con cui era confezionato e ho dovuto usare le forbici per aprirlo». Sta tutto in queste frasi il cuore della deposizione di Makka Sulaev, la ragazza di 19 anni di Nizza Monferrato sotto processo per l’omicidio del padre avvenuto nel loro appartamento il primo marzo dell’anno scorso.
Alla Corte d’Assise di Alessandria si è arrivati alle ultime battute di un processo che meglio di ogni convegno, manuale, corso di aggiornamento, lezione ha saputo mostrare il dramma delle violenze in famiglia ripetute per anni.
La ragazza rischia grosso, perchè il pm le ha contestato l’omicidio premeditato, quello che prevede l’ergastolo. Il suo avvocato difensore, Massimiliano Sfolcini, ha percorso tutte le vie giudiziarie possibili per dimostrare che si è invece trattato di una legittima difesa.
Dell’atmosfera tesa che da anni si viveva in quella casa avevano già parlato la madre di Makka e la sorella maggiore della ragazza: un uomo, Akhied, ceceno, che aveva imposto il regime del terrore. I suoi quattro figli e la moglie non dovevano disturbarlo, non potevano ridere in casa, non potevano fare rumori, parlare a voce alta e dovevano fare alla perfezione tutti i lavori che venivano loro affidati. Ma non bastava. La moglie e Makka erano le sue vittime predilette, le due donne di casa più grandi su cui si sentiva in diritto di inveire mortificandole, maltrattandole, picchiandole, umiliandole.
«Io non ricordo altro comportamento da quando ho memoria» ha detto stamattina Makka in aula quando le hanno chiesto che rapporto avesse con suo padre.
L’udienza di oggi si è aperta con la testimonianza della dottoressa Sara Di Marco, perito incaricato dalla Corte d’Assise, che ha ritenuto Makka capace di intendere e volere al momento dell’omicidio del padre. Conclusione che, a parità di dati e parametri valutati, è all’opposto di quella del dottor Freilone, consulente della difesa, che ha invece ritenuto sussistere una parziale capacità della ragazza proprio a seguito dei numerosi e ripetuti traumi da violenza subita e assistita.
Le domande che il suo difensore, Sfolcini, ha rivolto a Makka sono quelle che si sono fatti anche tante persone che hanno seguito la drammatica vicenda.
Odiavi tuo padre? «Da piccola no ma crescendo ho capito più cose e mi sono sempre sentita diversa dagli altri bambini che erano trattati bene dai loro padri. Se avevo paura di lui? Sì, certo, tutti ne avevamo, era il sentimento costante a casa nostra. E mio padre era il primo che voleva avessimo paura di lui».
E poi quel coltello comprato il giorno stesso dell’omicidio, poche ore prima. Perchè e per farne cosa?
«Ho comprato un coltello più robusto perchè in casa ne avevamo solo di piccoli. Non volevo uccidere mio padre, solo usare quel coltello per allontanarlo il tempo di far arrivare i carabinieri se le cose fossero degenerate. Avevo sentito mia madre, letto i messaggi che aveva ricevuto da lui e ascoltato i vocali. Sapevo che non era il solito litigio, avevo seriamente paura che avrebbe ucciso me o lei. E, in fondo, l’aveva anche detto».
Un crescendo di paura ed ansia culminata quando la madre, sempre in quel maledetto giorno, le ha telefonato per dirle, disperata: «Makka, se succede qualcosa a me, prenditi tu cura dei bambini e non lasciarli soli». E la ragazza, a sua volta, ha detto ai fratelli più piccoli: «Papà è impazzito, se vedete che fa qualcosa a me e alla mamma, chiamate subito i carabinieri».
Già, i carabinieri e quel numero di emergenza, 112, che la ragazza ha provato a fare quando le cose in casa, al ritorno della madre dal lavoro, sono precipitate. «Volevo digitarlo, ero agitatissima e non ero più sicura fosse il numero giusto. Ho chiesto ad un’amica ma quando stavoper chiamare, ho sentito l’urlo disperato di mia madre in cucina, sono corsa, ho visto lui che la stava soffocando e lì è iniziata la sequenza di botte a me, poi a lei, di calci nella schiena, di trascinamenti per i capelli, di altri colpi a noi due nella camera».
C’è un momento preciso in cui Makka ha la certezza che il padre ucciderà la madre. «Le ha detto, in russo, che avrebbe fatto un “concerto” di cui avrebbero parlato tutti i giornali. Nella nostra lingua significa che avrebbe fatto una strage». E a quel punto le ultime botte alle due donne e Makka che va a prendere il coltello nascosto sotto la stampante e sferra il colpo che risulterà poi fatale.
Più sfumati i suoi ricordi sulla seconda coltellata, meno profonda, data quando l’uomo si trovava in corridoio, aveva bloccato la via d’uscita alla maestra che stava facendo ripetizioni ai bambini più piccoli e tentava di rialzarsi. «Non ricordo quella seconda coltellata, non so perchè l’ho data».
Perchè lei e la madre non hanno mai pensato di denunciare il padre per le violenze domestiche?
«Ci abbiamo pensato tantissimo e ne parlavamo spesso ma non eravamo sicure che le forze dell’ordine ci avrebbero credute, non volevano doverci trasferire un’altra volta con i bambini che andavano a scuola e noi che lavoravamo e, soprattutto, temevamo di essere ancora più a rischio di quanto già non lo fossimo quando lui avesse saputo che lo avevamo denunciato».
Una versione, quella data al presidente Bargero e ai giudici popolari, in perfetta sintonia con le numerose altre date dall’arrivo dei carabinieri la sera dell’1 marzo 2024 in poi.
L’udienza riprenderà l’8 maggio con la discussione e la sentenza.