Ci è voluto un libro, e anche di quelli spessi, per spiegare che la nostra provincia non è rimasta indenne dalle infiltrazioni mafiose, in particolare quelle ‘ndranghetiste.
In verità, non un vero libro, ma 600 pagine di motivazioni del processo Barbarossa che i giudici Alberto Giannone (presidente del collegio), Marco Dovesi e Beatrice Bonisoli hanno condotto e chiuso poco prima del Natale 2020 con sole tre assoluzioni.
Motivazioni che dovevano arrivare a febbraio ma la cui pubblicazione è slittata alla settimana scorsa per evidenti ragioni di complessità della materia e delle tante posizioni da prendere in considerazione.
I giudici astigiani si sono trovati a giudicare nove imputati, quelli rimasti dall’iniziale numero più ampio degli arrestati e dei rinviati a giudizio. Molti di loro, quelli considerati di maggiore spessore, avevano scelto il rito abbreviato (e nelle scorse settimane hanno ottenuto un ulteriore sconto di pena nell’Appello già celebrato).
Al processo di Asti sono rimasti alcuni esponenti delle tre famiglie di spicco legate alla ‘ndrangheta, imprenditori di Costigliole, personaggi “satellite” del gruppo principale e la figura nota del commercialista Pier Paolo Gherlone.
Tutti dovevano difendersi dall’accusa di aver fatto parte della compagine che incuteva timore e ricorreva a metodi mafiosi per farsi le proprie ragioni; difesa resa ancor più difficile da due importanti testimonianze di coimputati che, già condannati in primo grado a Torino, hanno ampiamente ammesso una lunga serie di episodi tirando in ballo gli imputati di Asti.
Il piccolo esercito di avvocati, nelle sue arringhe, aveva molto insistito sull’inesistenza della “locale” di Asti, ridimensionando e minimizzando gli episodi contestati che non potevano essere ricondotti ad un metodo mafioso.
E proprio su questo punto, invece, i giudici hanno provveduto alla stesura di una lunga e articolata parte delle motivazioni in cui invece sostengono l’esatto contrario.
Asti troppo lontana dalla Calabria per poter parlare seriamente di ‘ndrangheta?
No, per i giudici, che hanno fissato l’esatto punto di partenza dell’indagine proprio in un agrumeto calabro, a Rosarno, nell’intercettazione di Rocco Zangrà (referente del Piemonte Sud e imputato di Barbarossa) con Domenico Oppedisano, prossimo capo crimine.
In quel colloquio emerge l’esistenza di un’articolazione attiva fra Cuneo, Asti e Alessandria e Zangrà chiede il permesso ai vertici calabresi di dar vita ad una seconda locale del Piemonte meridionale per ragioni logistiche.
Parlando spesso di “quelli di Asti” a dimostrazione del radicamento nella nostra provincia.
E poi la lunga e precisa testimonianza di Domenico Agresta, collaboratore di giustizia, che in carcere ad Asti ha saputo da Vincenzo Emma, “il muto” (anch’egli imputato di Barbarossa) dell’esistenza del gruppo di Asti che si interessava al movimento terra, alle estorsioni a night e alla droga.
Anche l’altro pentito, Ignazio Zito, dettaglia i rapporti di forza all’interno della locale con Zangrà riconosciuto come massima autorità. Nelle carte si parla di affiliazioni, di progressioni di “carriera” nell’assegnazione delle doti, di spedizioni punitive (come quella in Praia per lavare l’offesa ad uno Stambè durante la sua carcerazione).
L’esistenza della ‘drina astigiana è provata anche dalle collette per i detenuti, attività tipica dei clan e la divisione dei proventi illeciti su base gerarchica anche fra chi non ha partecipato direttamente al reato.
Entrando meglio nel caso astigiano, i giudici relatori delle motivazioni (Giannone e Bonisoli) hanno ricordato i reati principali rientrati nel processo Barbarossa per dimostrare l’associazione a delinquere di stampo mafioso: l’omicidio Di Gianni, l’aggressione al ladro di un camion dei Catarisano colpito a colpi sprangate, gli spari contro il Bar del Peso, quelli contro le auto di alcuni costigliolesi che non volevano “aiutare” il gruppo, le estorsioni ai danni di alcuni imprenditori che in seguito chiederanno di essere protetti e chiederanno “dispetti” a loro concorrenti dietro pagamento di compensi, le pressioni sul dipendente di un supermercato affinchè si licenziasse e lasciasse il posto ad uno del gruppo passando per gli incarichi di riscossione crediti accettati da alcuni imprenditori del posto che riconoscevano nel gruppo una alternativa più efficace di una normale causa di recupero.
Il tutto motivato con ampi stralci di intercettazioni telefoniche e ambientali che fanno concludere ai giudici come «l’articolazione locale astigiana fosse organizzata secondo le regole proprie dell’associazione di stampo ‘ndranghetista mutuate dalla storica organizzazione calabrese e al più in parte attuate nel territorio di insediamento in maniera meno rigida.
Si può dedurre che il sodalizio costituisca una propaggine (autonoma ma collegata) dell’associazione calabrese insediata in altro territorio e contraddistinta dalle stesse regole, dalla stessa organizzazione e dagli stessi codici comportamentali».
Le motivazioni sono ora allo studio degli avvocati difensori (e dei pm della DDA di Torino): saranno la base sulla quale verranno proposti i ricorsi in appello. Da parte dei pm per le posizioni o per i reati assolti, da parte degli avvocati per cercare di dimostrare, in secondo grado l’inesistenza del castello ‘ndranghetista nelle nostre terre.
Le motivazioni delle assoluzioni
Tre le assoluzioni giunte in sentenza: quella di Franco Marino, quella di Fabio Macario e quella di Pier Paolo Gherlone.
Il noto commercialista astigiano è stato assolto con la formula “perché il fatto non sussiste”. Era accusato di aver ceduto la gestione dell’Asti Calcio ai Catarisano, di fatto consegnando la società sportiva a membri dell’associazione ‘ndranghetista astigiana e di aver dato assenso per assumere Zangrà al fine di fargli ottenere la libertà vigilata. Gherlone era dunque ritenuto dalla pubblica accusa responsabile di aver contribuito a rafforzare l’associazione ‘ndranghetista favorendo la sua infiltrazione in un ambito di notevole rilievo per la vita sociale e della collettività anche fonte di introiti economici e di contributi pubblici.
La sua assoluzione è sostanzialmente motivata dal fatto che lui non era a conoscenza dello spessore criminale di Giuseppe Catarisano cui aveva, di fatto, affidato la gestione della società sportiva. Il suo gesto non è stato, secondo i giudici, fatto con la consapevolezza di fare un favore alla ‘ndrangheta locale per ottenerne in cambio dei benefici, ma solo nell’intento di salvare l’Asti Calcio senza conoscere la caratura né di Catarisano nè di Zangrà. Ne sarebbe venuto a conoscenza solo in seguito quando, per far fronte all’iscrizione al campionato e al pagamento di giocatori ed allenatori, Catarisano gli organizzò un incontro con Renato Macrì per la restituzione di un prestito che, a fronte di 65 mila euro di capitale, maturava un interesse usuraio del 10% al mese.
Per Marino, tirato prevalentemente in ballo dal collaboratore di giustizia Ignazio Zito che lo ha definito braccio destro di Zangrà e suo latore di messaggi “operativi”, dopo aver riletto e valutato attentamente tutte le intercettazioni che hanno riguardato l’imputato, i giudici hanno ritenuto che quello con Zangrà fosse un rapporto di natura amicale, come sempre sostenuto dall’imputato che si è sentito male in carcere dopo la lettura di sentenza di assoluzione. Ritenuto responsabile solo di un reato relativo ad una consegna di una piccola quantità di marijuana, i giudici non ritengono provato il ruolo di Marino quale braccio destro o pupillo di Zangrà visto che non è neppure emersa la frequenza e la periodicità dei suoi incontri con il referente ‘ndranghetista del Piemonte meridionale.
Fabio Macario, che non si è mai presentato in udienza, era invece accusato di un trasporto di droga dalla Calabria ma lui stesso aveva denunciato non solo di essere stato costretto a farlo, ma che appena arrivato ad Asti se ne era disfatto e che per questo motivo era stato a sua volta sequestrato in un alloggio dal quale era riuscito solo fortuitamente a scappare e a rivolgersi alle forze dell’ordine.